Qualche settimana fa pubblicammo un articolo su Io e Hannie di Woody Allen. Li citammo un saggio di Laura Mulvey, Piacere visivo e cinema narrativo. Ecco la versione integrale.
INTRODUZIONE
A. Un uso politico della psicoanalisi. Questo saggio si propone di usare la psicoanalisi per scoprire dove e come la fascinazione del film sia rinforzata da modelli di fascinazione preesistenti, già attivi nell’individuo e nelle formazioni sociali che lo hanno,plasmato, e prende come punto di partenza il modo in cui il film riflette, rivela, o anche mette in scena fedelmente, l’interpretazione socialmente stabilita dalla differenza sessuale che controlla le immagini, i modi di guardare erotici, lo spettacolo. E’ utile comprendere cosa è stato il cinema, come ha operato la sua magia in passato, quando si tenta di dar forma ad una teoria e una pratica che sfidino questo cinema del passato. La teoria psicanalitica è quindi un’opportuna arma politica, in quanto dimostra in qual modo l’inconscio della società patriarcale abbia strutturato la forma filmica. E paradosso dei fallocentrismo, in tutte le sue ’ manifestazioni, è ch’esso dipende dall’immagine della donna castrata per dar ordine e significato al suo mondo. Un’idea della donna funge da cardine dei sistema : è la sua mancanza che produce il fallo come presenza simbolica, è il suo desiderio dì compensare la mancanza di ciò che il fallo significa. Gli articoli recentemente apparsi su « Screen » a proposito di psicoanalisi e cinema, non hanno posto sufficientemente in luce l’importanza della rappresentazione della forma femminile in, un ordine simbolico in cui, in ultima istanza, tale forma esprime null’altro che castrazione. Riassumiamo in breve : la funzione della donna nella formazione dell’inconscio patriarcale è duplice; anzitutto ella simbolizza la minaccia di castrazione con la sua assenza reale di un pene, e in secondo luogo, perciò, innalza il proprio figlio nel simbolico. Una volta raggiunto questo risultato, il suo significato nel processo è giunto a termine, non persiste nel mondo della legge e dei linguaggi, se non come ricordo, oscillante tra il ricordo della pienezza materna e il ricordo della mancanza, entrambi fondati sulla natura (o sull’« anatomia », secondo la celebre espressione freudiana). Il desiderio della donna è assoggettato alla sua immagine di portatrice della ferita sanguinante; ella può esistere soltanto in rapporto alla castrazione, non può trascenderla. Trasforma il proprio figlio nel significante del suo stesso desiderio di possedere un pene (condizione, ella immagina, dell’accesso al simbolico). Dovrà cedere garbatamente alla parola, il Nome del Padre e la Legge, oppure lottare per trattenere seco il figlio nella penombra dell’immaginario. La donna, quindi, nella cultura patriarcale funge da significante per l’altro maschile, vincolata da un ordine simbolico in cui l’uomo può vivere le sue fantasie e ossessioni tramite il dominio del linguaggio, imponendole all’immagine silenziosa della donna, ancora legata al suo posto di portatrice, non creatrice, di significato. Quest’analisi ha un interesse evidente per il femminismo ; vi è una certa bellezza nella precisione con cui rende la frustrazione sperimentata sotto l’ordine fallocentrico. Ci fa accostare maggiormente alle radici della nostra oppressione, ci fa avvicinare ad una articolazione del problema, ci pone di fronte alla sfida fondamentale: come combattere l’inconscio strutturato come un linguaggio (il momento critico della sua formazione coincide con l’ingresso del linguaggio) mentre si è ancora prese entro il linguaggio del patriarcato. Non vi è modo alcuno di far nascere improvvisamente una alternativa dal nulla, ma possiamo iniziare ad aprire una breccia esaminando il patriarcato con gli strumenti che esso ci fornisce ; e la psicanalisi non è il solo, ma è uno strumento importante. Una distanza notevole ci separa ancora da temi importanti per l’inconscio femminile ma di scarso rilievo per la teoria fallocentrica: la sessuazione della neonata e il suo rapporto con l’ordine simbolico, la donna sessualmente matura come non-madre, la maternità oltre la significazione del fallo, la vagina... Ma la teoria psicoanalitica, quale si presenta oggi, può per lo meno far progredire la nostra comprensione dello status quo, dell’ordine patriarcale in cui siamo imprigionate.
B. Distruzione del piacere come arma – radicale. Il cinema, in quanto sistema di rappresentazione avanzato, pone degli interrogativi circa i modi in cui l’inconscio (modellato dall’ordine dominante) struttura i modi di vedere e il piacere del guardare. Il cinema in questi ultimi decenni è cambiato, non è più il sistema monolitico basato su grandi investimenti di capitale, esemplificato nel modo migliore dalla Hollywood degli anni ’30, ’40 e ’50. I progressi tecnologici (16 mm. ecc.) hanno cambiato le condizioni economiche della produzione cinematografica, che ora può essere sia artigianale che capitalistica. Si è quindi reso possibile lo sviluppo di un cinema alternativo. Per quanto Hollywood riuscisse ad essere consapevole e ironica, si limitava sempre ad una mise-en-scéne formale che rifletteva la concezione ideologica dominante del cinema. Il cinema alternativo apre uno spazio per la nascita di un cinema radicale in senso sia politico che estetico, che sfidi i presupposti basilari del cinema tradizionale. Non perché quest’ultimo vada rifiutato moralisticamente ma per far risaltare in quali modi le sue preoccupazioni formali riflettono le ossessioni psichiche della società che ha prodotto, e, inoltre, per sottolineare che il cinema alternativo deve muovere specificamente dalla reazione contro queste ossessioni e questi presupposti. Un cinema politicamente ed esteticamente d’avanguardia è oggi possibile, ma può esistere, ancora, soltanto come contrappunto. La magia dello stile di Hollywood nei suoi momenti migliori (e di tutto il cinema che cadeva entro la sua sfera di influenza), nasceva, non esclusivamente ma per un aspetto importante dalla manipolazione abile e soddisfacente del piacere visivo. Incontrastato, il film tradizionale codificava l’erotico nel linguaggio dell’ordine patriarcale dominante. Nello sviluppatissimo cinema hollywoodiano era solo tramite questi codici cifrati che il soggetto alienato, straziato nel ricordo immaginario da un senso di perdita, e dal terrore di una mancanza potenziale nella fantasia, giungeva quasi a trovare un barlume di soddisfazione: tramite la bellezza formale e il giocare con le sue stesse ossessioni formative. Questo saggio discuterà l’intessitura di quel piacere erotico nel film, il suo significato, e in particolare il posto centrale dall’immagine della donna. Si dice che analizzare il piacere o la bellezza, li distrugge. E’ quanto sì prefigge questo articolo. La soddisfazione e il rafforzamento dell’ego che rappresentano finora il culmine della storia dei film debbono essere attaccati. Non in favore di un nuovo piacere ricostruito, che non può esistere in astratto, o di un non-piacere intellettualizzato, ma per far posto ad una negazione totale della tranquillità e della pienezza del film di fiction. L’alternativa è l’emozione che deriva dal lasciarsi addietro il passato senza rifiutarlo, superando le forme consunte od oppressive, oppure osando rompere con le normali aspettative di piacere ai fine di concepire un nuovo linguaggio del desiderio.
II PIACERE NEL GUARDARE FASCINAZIONE DELLA FORMA UMANA
A. Il cinema offre una quantità di possibili piaceri. Uno è la scopofilia. Vi sono circostanze in cui il guardare stesso è una fonte di piacere, proprio come, nel caso inverso, v’è un piacere nell’essere guardati. Originariamente, nei suoi Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Freud isolava la scopofilia come una delle componenti istintuali della sessualità che esistono come pulsioni in modo affatto indipendente dalle zone erogene, e associava la scopofilia con lo assumere altre persone come oggetti, sottoponendole ad uno sguardo di curiosità e controllo. I suoi esempi s’incentrano sulle attività voyeuristiche dei bambini, sul loro desiderio di vedere e accertarsi del privato e dei proibito (curiosità riguardo ai genitali e alle funzioni corporali di altre persone, riguardo alla presenza o assenza del pene, e, retrospettivamente, riguardo alla scena primaria). In quest’analisi la scopofilia è essenzialmente attiva. (In seguito, in Pulsioni e loro destini, (1915), Freud sviluppò ulteriormente la sua teoria della scopofilia, imputandola inizialmente all’autoerotismo pregenitale, dopo di che il piacere del guardare si trasferisce sugli altri per analogia. C’è qui un’elaborazione serrata del rapporto fra l’istinto attivo e il suo ulteriore sviluppo in una forma narcisistica.) Sebbene l’istinto sia modificato da altri fattori, in particolare la costituzione dell’ego, esso—continua ad esistere come base erotica del piacere nel guardare un’altra persona come oggetto. All’estremo, può fissarsi in una perversione, producendo voyeurs ossessivi guardoni, la cui unica soddisfazione sessuale può venire dall’osservare, nel senso di un controllo attivo, un altro oggettivato. A prima vista, il cinema sembrerebbe ben lontano dal mondo segreto dell’osservazione furtiva di una vittima ignara e involontaria, quel che si vede sullo schermo viene chiarissimamente mostrato. Ma la massa della produzione cinematografica tradizionale, e le convenzioni entro cui si è consapevolmente evoluta, ritraggono un mondo ermeticamente chiuso che si svolge magicamente, indifferente alla presenza del pubblico, producendo per esso un senso di separazione e giocando sulla sua fantasia voyeuristica. Inoltre, l’estremo contrasto tra l’oscurità in sala (che isola anche gli spettatori l’uno dall’altro), e lo splendore dei mutevoli disegni di luce ed ombra sullo schermo, contribuisce a favorire l’illusione di una separazione voyeuristica. Anche se il film viene davvero mostrato, è lì per essere visto, le condizioni di proiezione e le convenzioni narrative danno allo spettatore l’illusione di gettare lo sguardo su di un mondo privato. Fra l’altro, la posizione degli spettatori nel cinema è una posizione di repressione eclatante del loro esibizionismo, e di proiezione del desiderio represso sull’attore.
B. Il cinema soddisfa una voglia primordiale di guardare con piacere, ma va anche oltre, sviluppando la scopofilia nel suo aspetto narcisistico. Le convenzioni dei film tradizionale concentrano l’attenzione sulla forma umana. La scala, lo spazio, le vicende sono antropomorfici ; la curiosità e la voglia di guardate si mescolano con una fascinazione della somiglianza e dei riconoscimento: il volto umano, il corpo umano, il rapporto tra la forma umana e ciò che la circonda, la presenza visibile della persona nel inondo. Jacques Lacan ha descritto come il momento in cui un bambino riconosce la propria immagine nello specchio sia cruciale per la costituzione dell’io. Molti aspetti di questa analisi hanno qui una certa importanza. La fase dello specchio si verifica in un momento in cui le ambizioni fisiche del bambino superano la sua capacità motoria, col risultato che il riconoscimento di s è apportatore di gioia in quanto egli immagina che la sua immagine rispecchiata sia più completa, più perfetta, rispetto all’esperienza che ha del proprio corpo. Il riconoscimento è quindi ricoperto dal misconoscimento: l’immagine riconosciuta è concepita come il corpo riflesso del sì, ma l’erroneo riconoscimento di una superiorità proietta questo corpo al di fuori di sé come un io ideale, il soggetto alienato, che, reintroiettato come ideale dell’io, dà origine alla futura progenie di identificazioni con altri. Il momento dello specchio precede il linguaggio per il bambino. Al fini di questo saggio è importante il fatto che sia una immagine a costituire la matrice dell’immaginario, del riconoscimento/misconoscimento e dell’identificazione, e quindi della prima articolazione dell’Io, della soggettività. È il momento in cui una più antica fascinazione del guardare (il volto della madre, per fare un esempio evidente) si scontra con gli iniziali sentori della coscienza di sé. E’ quindi, la nascita della lunga relazione/disperazione amorosa fra immagine e immagine di sé, che nel film ha trovato una così grande intensità, espressiva, e nel pubblico cinematografico, un riconoscimento così gioioso. A prescindere dalle somiglianze estrinseche tra schermo e specchio (l’inquadratura della forma umana in ciò che la circonda, per esempio), il cinema ha strutture di fascinazione abbastanza forti da consentire una perdita temporanea dell’io pur rafforzando, simultaneamente, l’io. La sensazione di dimenticare il mondo che l’io è in seguito arrivato a percepire (ho dimenticato chi sono e dove mi trovavo), richiama nostalgicamente quel momento presoggettivo di riconoscimento dell’immagine. Nel medesimo tempo il cinema si è distinto nella produzione di ideali dell’io, quali si esprimono in particolare nello « star system », in cui le star accentrano sia la presenza che la vicenda filmica, in quanto agiscono un processo complesso di somiglianza e differenza (il glamorous impersona l’uomo comune).
C. Le sezioni II A e II B hanno esposto due aspetti contraddittori delle strutture di piacere del guardare, nella situazione cinematografica convenzionale. Il primo, scopofilo, nasce dal piacere di usare un’altra persona come oggetto di stimolazione sessuale attraverso la vista. Il secondo, che si sviluppa attraverso il narcisismo e la costituzione dell’io, deriva dall’identificazione con l’immagine vista. Quindi, in termini filmici, l’uno implica una separazione dell’identità erotica del soggetto dall’oggetto sullo schermo (scopofilia attiva), l’altro esige l’identificazione dell’io con l’oggetto sullo schermo tramite la fascinazione dello spettatore e il riconoscimento del suo simile. Il primo è una funzione degli istinti sessuali, il secondo della libido dell’io. Questa dicotomia per Freud era cruciale : benché vedesse le due cose come integranti e sovrapposte, il contrasto fra pulsioni istintuali ed autoconservazione continua ad essere una polarizzazione drammatica in rapporto al piacere. Sono entrambe strutture formative, meccanismi, non significati. In se stessi non hanno alcun significato, debbono essere agganciate ad una idealizzazione. Entrambe perseguono scopi indifferenti alla realtà percettiva, creando quella concezione del mondo erotizzata e densa d’immagini che dà forma alla percezione del soggetto, e si fa scherno della realtà empirica. Nel corso della sua storia il cinema sembra aver sviluppato una particolare illusione di realtà, nella quale questa contraddizione tra libido e io ha trovato un inondo fantastico meravigliosamente complementare. In realtà il mondo fantastico dello schermo è soggetto alla legge che lo produce. Gli istinti sessuali e i processi di identificazione hanno un significato entro l’ordine simbolico che articola il desiderio. Il desiderio, nato con il linguaggio, consente la possibilità di trascendere l’istintuale e l’immaginario, ma il suo punto di riferimento ritorna continuamente al momento traumatico della sua nascita : il complesso di castrazione. Quindi lo sguardo, può essere minaccioso nel contenuto, ed è la donna come rappresentazione/immagine a cristallizzare questo paradosso.
III LA DONNA COME IMMAGINE, L’UOMO COME SUPPORTO DELLO SGUARDO
A. In un mondo ordinato dalla disparità sessuale, il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile. Lo sguardo maschile determinante proietta la sua fantasia sulla figura femminile, che è definita in conseguenza. Nel loro tradizionale ruolo esibizionistico le donne sono simultaneamente guardate e mostrate, con il loro aspetto codificato per ottenere un forte impatto visivo ed erotico tale da sottintendere che « si guardi loro il culo ». La donna mostrata come oggetto sessuale è il leitmotiv dello spettacolo erotico : dalle pinups allo striptease, da Ziegfield a Busby Berkeley, ella sostiene lo sguardo, recita e significa il desiderio maschile. Il cinema tradizionale combinava armoniosamente spettacolo e narrazione. (Si noti, tuttavia, come nel musical i numeri di canto e danza rompano il fluire della diegesis). La presenza della donna è un elemento indispensabile dello spettacolo nel normale film narrativo, eppure la sua presenza visiva tende ad ostacolare lo sviluppo della vicenda, a congelare il fluire dell’azione in momenti di contemplazione erotica. Questa presenza estranea deve quindi essere integrata nella coesione narrativa. Per dirla come Budd Boetticher (della Hollywood B Westerns - Eds.) : « Ciò che conta è quel che l’eroina provoca, o piuttosto quel che rappresenta. E’ lei, o meglio l’amore o la paura che ispira all’eroe, o anche l’interesse ch’egli prova nei suoi confronti, a farlo agire in quella data maniere. In se stessa, la donna non ha la benché minima importanza ». (Una tendenza recente nel film narrativo è quella di eliminare del tutto questo problema, donde lo sviluppo di quello che Molly Haskell ha chiamato il « buddy movie », in cui l’erotismo omosessuale attivo delle figure maschili centrali può portare avanti la vicenda senza distrazioni). Tradizionalmente, la donna esibita ha funzionato a due livelli : come oggetto erotico per i personaggi nella vicenda che si svolgeva sullo schermo, e come oggetto erotico per lo spettatore in sala, con una tensione mutevole fra gli sguardi da un lato e dall’altro dello schermo. Per esempio, l’espediente della showgirl consente che i due sguardi siano unificati tecnicamente senza alcuna frattura visibile nella diegesi. Una donna recita nella vicenda, lo sguardo dello spettatore e quello dei personaggi maschili del film si combinano armoniosamente senza rompere la verosimiglianza. narrativa. Per un attimo l’impatto sessuale della donna che recita porta il film in una terra di nessuno, al di fuori del suo stesso tempo e spazio. Così la prima apparizione di Marilyn Monroe in The River of No Return (1954), e le canzoni di Lauren Bacall in To Have and Have Not (1944). In modo analogo, i primi piani convenzionali delle gambe (la Dietrich, per esempio), o un volto (la Garbo), integrano nella narrazione un diverso tono di erotismo. Una parte d’un corpo frammentato distrugge lo spazio rinascimentale, l’illusione di profondità richiesta dalla narrazione, dà allo schermo una piattezza caratteristica di un « cutout » o di una icona, piuttosto che verosimiglianza.
B. Una divisione eterosessuale del lavoro, attivo/passivo, ha analogamente controllato la struttura narrativa. Conformemente ai principi della ideologia dominante e alle strutture psichiche che la sorreggono, la figura maschile non può portare il fardello dell’oggettivazione sessuale. L’uomo è riluttante a fissare lo sguardo sul suo simile esibizionista. Quindi la scissione tra spettacolo e narrazione convalida il ruolo maschile di personaggio attivo che fa progredire la vicenda, fa accadere le cose. L’uomo controlla la fantasia filmica ed emerge come rappresentante del potere anche in un senso ulteriore : come supporto dello sguardo dello spettatore, trasferendolo dietro lo schermo a neutralizzate le tendenze extra-narrative rappresentate dalla donna come spettacolo. Ciò è reso possibile tramite i processi messi in moto strutturando il film attorno ad una figura principale, di controllo, con cui lo spettatore può identificarsi. Poiché lo spettatore si identifica con il protagonista maschile, proietta il suo sguardo su quello del suo simile, del suo sostituto sullo schermo, cosicché il potere del protagonista maschile nel controllare gli eventi coincide con il potere attivo dello sguardo erotico entrambi danno una soddisfacente sensazione di onnipotenza). Le caratteristiche dei glamour di una star maschile sono quindi non dell’oggetto erotico dello sguardo, ma quelle del più perfetto, più completo, più potente io ideale concepito nel momento originario del riconoscimento di fronte allo specchio. Il personaggio nella storia può far accadere le cose e controllare gli eventi meglio del soggetto/spettatore, proprio come l’immagine nello specchio controllava maggiormente la coordinazione motoria. In contrapposizione alla donna come icona, la figura attiva maschile (l’ideale dell’io dei processo di identificazione) richiede uno spazio tridimensionale, corrispondente a quello del riconoscimento allo specchio in cui il soggetto alienato interiorizzava la sua stessa rappresentazione di questa esistenza immaginaria. Egli è una figura in un paesaggio. Qui, la funzione del film è quella di riprodurre, quanto più precisamente possibile, le cosiddette condizioni naturali della percezione umana. La tecnica cinematografica (esemplificata in particolare dalla profondità di campo) e i movimenti di macchina (determinati dall’azione dei protagonista), combinati con il montaggio invisibile (richiesto dal realismo), tendono tutti a rendere indistinti i limiti dello spazio dello schermo. Il protagonista maschile è libero di imperare sulla scena, una scena di illusione spaziale in cui egli articola lo sguardo e crea l’azione.
C. Le sezioni III A e III B hanno evidenziato una tensione fra un modo di rappresentate la donna nel cinema e le convenzioni riguardo alla diegesi, l’uno e le altre associati ad uno sguardo : quello dello spettatore in diretto contatto scopofilo con la forma femminile esibita per il suo godimento (che connota la fantasia maschile), e quello dello spettatore affascinato dall’immagine del suo si situato in un illusorio spazio naturale, e che tramite lui acquisisce il controllo e il possesso della donna all’interno della diegesi. (Questa tensione e lo spostamento ad un polo all’altro possono strutturare un unica testo. Così, sia in Only Angels Have Wings sia in To Have and Have Not, il film inizia con la donna come oggetto dello sguardo combinato dello spettatore e di tutti i protagonisti maschili dei film. Ella è isolata, affascinante, in mostra, molto connotata sessualmente. Ma, col procedere della narrazione, si innamora del principale protagonista e diviene sua proprietà, perdendo le caratteristiche esteriori di glamour, la sessualità generalizzata, i tratti di showgirl, il suo erotismo è soggetto solo alla star maschile. Per mezzo della identificazione con lui, tramite la partecipazione al suo potere, anche lo spettatore può indirettamente possederla). Ma in termini psicoanalitici la figura femminile pone un problema più profondo: allude anche a qualcosa cui lo sguardo gira continuamente attorno pur rinnegandolo : la sua mancanza di un pene, che implica una minaccia di castrazione e quindi un non piacere. In definitiva, il significato della donna è la differenza sessuale, l’assenza visivamente constatabile del pene, l’evidenza materiale su cui si fonda il complesso di castrazione essenziale per l’organizzazione dell’accesso all’ordine simbolico e alla Legge del Padre. Così la donna come icona, mostrata per lo sguardo e il godimento degli uomini, cui è dato il controllo attivo dello sguardo, minaccia sempre di evocare l’angoscia che originariamente significava. L’inconscio maschile ha due strade per sfuggire a questa angoscia dell’ammirazione: la preoccupazione per la ripetizione del trauma originario (investigando la donna, demistificando il suo mistero), controbilanciata dalla svalutazione, punizione o redenzione dell’oggetto colpevole (una strada esemplificata dalle inquietudini del film noir) ; oppure rinnegare completamente la castrazione attraverso la sostituzione con un oggetto feticistico o la trasformazione in feticcio della stessa figura rappresenta, in modo che divenga rassicurante anziché pericolosa (donde la supervalutazione, il culto della star). Questa seconda strada. la scopofilia feticistica, innalza la bellezza fisica dell’oggetto, trasformandolo in qualcosa di soddisfacente di per se stesso. La prima strada, il voyeurismo, al contrario, ha associazioni con il sadismo: il piacere sta nell’accertare la colpa (immediatamente associata con la castrazione), ribadire il controllo, e soggiogare la persona colpevole con la punizione o con il perdono. Questa variante sadica ben si adatta alla narrazione. Il sadismo richiede una storia, dipende dal far accadere qualcosa. provocando violentemente un mutamento in un’altra persona, uno scontro di volontà e forza, vittoria/sconfitta, e tutto ciò si deve verificare in un tempo lineare, con un principio ed una fine. La scopofilia feticistica, d’altro canto, può esistere al di fuori del tempo lineare, poiché la pulsione erotica è incentrata solo sullo sguardo. Queste contraddizioni e ambiguità possono essere illustrate più semplicemente con le opere di Hitchcock e di Sternberg, entrambi i quali fanno dello sguardo quasi il contenuto o il soggetto di molti loro film. Hitchcock è il più complesso, in quanto usa entrambi i meccanismi. L’opera di Sternberg, d’altro canto, offre molti esempi di pura scopofilia feticistica.
C.2. E’ risaputo che Sternberg una volta disse che sarebbe stato ben felice che i suoi film venissero proiettati capovolti, in modo che la vicenda e il coinvolgimento nel personaggio non interferissero con lo schietto apprezzamento dall’immagine sullo schermo da parte dello spettatore. Quest’affermazione è rivelatrice ma ingenua. Ingenua in quanto i suoi film esigono che la figura della donna (la Dietrich, nel ciclo di film da lei interpretati, è l’esempio fondamentale) sia identificabile. Ma rivelatrice in quanto mette in evidenza come per lui lo spazio pittorico racchiuso dal quadro sia, ben più che la narrazione o i processi di identificazione, di somma importanza. Laddove Hitchcock s’addentra nella variante investigativa dei voyeurismo, Sternberg produce il feticcio definitivo, portandolo ad un punto tale che lo sguardo potente del protagonista maschile (caratteristico dei tradizionale film narrativo) s’interrompe e favore dell’immagine in rapporto erotico diretto con lo spettatore. La bellezza della donna come oggetto e lo spazio dello schermo si fondono, ella non è più la portatrice della colpa, ma un prodotto perfetto, il cui corpo, stilizzato e frammentato dai primi piani, è il contenuto del film, e riceve direttamente lo sguardo dello spettatore. Sternberg da poca importanza all’illusione di profondità dello schermo. Il suo schermo tende ad essere unidimensionale, in quanto luce ed ombra, trine, vapore, fogliame, pizzi, nastri, ecc. riducono il campo visivo. Vi è poca o nessuna mediazione dello sguardo tramite gli occhi del protagonista maschile. Al contrario, presenze poco definite come La Bessière in Marocco (1930) fungono da sostituti del regista, distaccate come sono dall’identificazione del pubblico. Nonostante l’insistere di Sternberg sulla scarsa importanza delle sue storie, è significativo ch’esse siano impostate sulla situazione, non sulla suspense e su un tempo ciclico anziché lineare, mentre le complicazioni dell’intreccio ruotano attorno ad un fraintendimento anziché ad un conflitto. L’essenza più importante é quella dello sguardo maschile che controllo all’interno della scena filmica. Il culmine del dramma emotivo nei più tipici film della Dietrich, i suoi momenti sommi di significato erotico, hanno luogo in assenza dell’uomo che ella ama nella fiction. Ci sono altri testimoni, altri spettatori, che la guardano sullo schermo, e il loto sguardo è tutt’uno con, non controfigura di, quello del pubblicò Alla fine di Morocco, Tom Brown è già -scomparso nel deserto quando Amy Jolly scaravento via í suoi sandali dorati e lo segue. Alla fine di Dishonored (1931), Kranau è indifferente al destino di Magda. In entrambi i casi, l’impatto erotico, santificato dalla morte, è mostrato come uno spettacolo per il pubblico. L’eroe maschile fraintende, e, soprattutto, non vede. In Hitchcock, al contrario, l’eroe maschile vede precisamente ciò che vede il pubblico. Tuttavia, nei film che esaminerò qui egli prende a soggetto dei film la fascinazione di un’immagine tramite un erotismo scopofilo. Inoltre, in questi casi l’eroe raffigura le contraddizioni e le tensioni sperimentate dallo spettatore. In Vertigo (1958) in particolare, ma anche in Marnie (1964) e in Rear Window (1954), lo sguardo è al centro dell’intreccio, oscillando tra il voyeurismo e la fascinazione feticistica. Come una distorsione, un’ulteriore manipolazione del processo normale del vedere, che in un certo senso lo rivela Hitchcock usa il processo di identificazione normalmente associato con la correttezza ideologica e il riconoscimento della moralità stabilita, e ne svela l’aspetto perverso. Hitchcock non ha mai dissimulato il suo interesse per il voyeurismo, cinematografico e non i suoi eroi sono esemplari dell’ordine simbolico e della legge - un poliziotto (Vertígo), un maschio dominante che possiede denaro e potere (Marnie) - ma le loro pulsioni erotiche li conducono in situazioni compromettenti. Il potere di assoggettare un’altra persona sadicamente alla volontà o voyeuristicamente allo sguardo è rivolto contro la donna, oggetto di entrambi. Il potere è sostenuto dalla certezza d’un diritto legale e dalla colpa dimostrata della donna (che evoca la castrazione, psicoanaliticamente parlando). Una vera e propria perversione è appena dissimulata sotto una maschera superficiale di correttezza ideologica - l’uomo è dalla parte giusta della legge, la donna dalla parte sbagliata. L’abile utilizzazione, da parte di Hitchcock, dei processi di identificazione, e l’abbondante uso della ripresa soggettiva dal punto di vista del protagonista maschile, attraggono profondamente gli spettatori nella sua posizione, facendo loro condividere il suo sguardo inquieto. Il pubblico è risucchiato in una situazione voyeuristica, all’interno della scena e della narrazione che si svolgono sullo schermo, che fa la parodia della sua stessa situazione nel cinema. Nella sua analisi di Rear Window, Douchet assume il film come metafora del cinema. Jeffries è il pubblico, gli eventi nell’isolato di fronte corrispondono allo schermo. Quando egli osserva, si aggiunge una dimensione erotica al suo sguardo, e una immagine centrale al dramma. La sua ragazza, Lisa, ha avuto uno scarso interesse sessuale per lui, è stata più o meno un peso, fintanto che è rimasta dalla parte dello spettatore. Quando attraversa la barriera tra la stanza di lui e la casa di fronte, la loro relazione rinasce eroticamente. Egli non si limita ad osservarla attraverso il suo obiettivo come una remota immagine significativa, la vede anche come una colpevole intrusa, smascherata da un uomo pericoloso che la minaccia di punizione, e quindi alla fine la salva. L’esibizionismo di Lisa è già stato dimostrato dal suo interesse ossessivo per l’abbigliamento e la moda, nel suo essere una immagine passiva della perfezione visiva, il voyeurismo e l’attività di Jeffries sono già stati accertati attraverso il suo lavoro di fotogiornalista, creatore di storie e cacciatore di immagini. Comunque, la sua inattività forzata, legandolo alla sedia come uno spettatore, lo pone direttamente nella disposizione fantastica del pubblico cinematografico. In Vertigo la soggettiva predomina. A parte un unico flashback dal punto di vista di Judy, la narrazione s’intesse attorno a ciò che Scottie vede o non vede. Il pubblico segue la crescita della sua ossessione erotica e la disperazione successiva esattamente dal suo punto di vista. Il voyeurismo dì Scottie è evidentissimo : si innamora di una donna che continua a seguire e spiare senza parlarle. Il suo lato sadico è parimenti evidentissimo : ha scelto (e scelto liberamente, poiché è stato un avvocato di fama) di fare il poliziotto, con tutte le possibilità connesse di inseguimento e indagine Il risultato è ch’egli segue, osserva e sì innamora di un’immagine perfetta della bellezza e del mistero femminili. Una volta che la affronta realmente, la sua pulsione erotica è quella di farla crollare e di costringerla a parlare, con un interrogatorio serrato. Poi, nella seconda parte del film, reinscena la sua ossessione per la immagine che amava osservare segretamente. Ricostruisce Judy come Madeleine, la costringe a conformarsi in ogni dettaglio all’aspetto fisico dei suo feticcio. L’esibizionismo e il masochismo di lei ne fanno un ideale complemento passivo del voyeurismo sadico attivo dì Scottie. Ella sa di dover recitare la sua parte, e che soltanto recitandola sino in fondo e poi reinscenandola può conservare l’interesse erotico di Scottie. Ma nella ripetizione egli la fa crollare e riesce a svelare la sua colpa. La sua curiosità vince ed ella è punita. In Vertigo il coinvolgimento erotico nello sguardo è disorientante: la fascinazione dello spettatore è rivolta contro di lui, poiché la narrazione gli fa attraversare, e lo intreccia con, processi che egli stesso sta agendo. L’eroe di Hitchcock qui è situato saldamente entro l’ordine simbolico, in termini narrativi ha tutti gli attributi dei super-io patriarcale. Per cui lo spettatore, cullato in un falso senso di sicurezza dalla legalità evidente del suo sostituto, vede attraverso il suo sguardo e si trova smascherato come complice, avvinto nell’ambiguità morale del guardare. Lungi dall’essere semplicemente un assolo sulla perversione della polizia, Vertigo si incentra sulle implicazioni dell’attivo/guardante, passivo/guardato, scissi in termini di differenza sessuale e di potere del maschio simbolico incapsulato nell’eroe. Anche Marnie recita per lo sguardo di Mark Rutland. e si maschera da immagine-perfetta-da-guardare, anch’egli è dalla parte della legge, sino a che, trascinato dall’ossessione per la colpa di lei, per il suo segreto, desidera ardentemente di vederla nell’atto di commettere un delitto, la fa confessare e quindi la salva. Anch’egli, così, diviene complice, poiché agisce le implicazioni del suo stesso potere. Controlla il denaro e le parole, riesce ad avere la botte piena e la moglie ubriaca.
IV. Il background psicoanalitico che è stato esaminato in questo saggio è importante per il piacere e il non-piacere offerti dal film narrativo tradizionale. L’istinto scopofilo (piacere nel guardare un’altra persona come oggetto erotico) è in contrasto, la libido dell’io (che dà forma ai processi di identificazione) agiscono come formazioni, meccanismi, sui quali questo cinema ha giocato. L’immagine della donna come materia greggia (passiva) per lo sguardo (attivo) dell’uomo fa fare alla discussione un altro passo in avanti all’interno della struttura della rappresentazione, aggiungendo un livello ulteriore richiesto dall’ideologia dell’ordine patriarcale elaborata nella sua forma cinematografica prediletta - il film di fiction. La discussione ritorna ancora al background psicoanalitico, in quanto la donna come rappresentazione significa la castrazione, facendo sì che meccanismi voyeuristici o feticistici circuiscano la sua minaccia. Nessuno di questi livelli interagenti è intrinseco al film, ma è s tanto nella forma filmica che essi possono raggiungere una contraddizione perfetta e bella, grazie alla possibilità, nel cinema, di trasferire l’enfasi dello sguardo. È il luogo dello sguardo a definire il cinema, la possibilità di variarlo e di svelarlo. Ed è ciò che rende il cinema ben diverso, nel suo potenziale voyeuristico, per esempio dallo striptease, dal teatro, dagli spettacoli ecc. Lungi dal limitarsi a mettere in risalto una donna « a cui si guarda il culo », il cinema costruisce una maniera di guardarla all’interno dello spettacolo stesso. Giocando sulla tensione tra il film in quanto controlla la dimensione del tempo (montaggio, narrazione) e il film in quanto controlla la dimensione dello spazio (mutamenti di piano, montaggio), i codici cinematografici creano uno sguardo, un mondo, un oggetto, producendo per mezzo di ciò una illusione tagliata su misura per il desiderio. Sono questi codici cinematografici e il loro rapporto con le strutture formative esterne che devono essere demoliti prima di poter sfidare il film tradizionale e il piacere che esso provoca. In primo luogo (per concludere), può essere demolito lo stesso sguardo voyeuristico-scopofilo che è parte cruciale del piacere filmico tradizionale. Vi sono tre sguardi diversi associati al cinema : quello della cinepresa che registra l’evento pre-filmico, quello dei pubblico che osserva il prodotto finale e quello dei personaggi fra loro all’interno della finzione cinematografica. Le convenzioni del film narrativo negano i primi due e li subordinano al terzo, poiché il fine cosciente è sempre quello di eliminare la presenza invadente della cinepresa, e di prevenire un distacco cosciente del pubblico. Senza queste due assenze (la esistenza materiale. del processo di registrazione, la lettura critica dello spettatore), la finzione scenica non può acquisire realtà, evidenza e verità. Ciò non di meno, come questo saggio ha tentato di dimostrare, la struttura del guardare nel film di fiction contiene una contraddizione nelle sue stesse premesse : l’immagine femminile come minaccia di castrazione mette costantemente in pericolo l’unità della diegesi, ed irrompe attraverso il mondo dell’illusione come un feticcio invadente, statico e unidimensionale. Così i due sguardi materialmente presenti nel tempo e nello spazio vengono ossessivamente subordinati alle esigenze nevrotiche dell’ego maschile. La cinepresa diviene il meccanismo per produrre l’illusione di uno spazio rinascimentale, movimenti fluidi compatibili con l’occhio umano, un’ideologia della rappresentazione che ruota attorno alla percezione dei soggetto ; lo sguardo della cinepresa è rinnegato al fine di creare un mondo convincente, in cui il sostituto dello spettatore possa recitare con verosimiglianza. Simultaneamente, allo sguardo del pubblico viene negata forza intrinseca : non appena la rappresentazione feticistica dell’immagine femminile minaccia di spezzare l’incantesimo dell’illusione, e l’immagine erotica sullo schermo appare direttamente (senza mediazione) allo spettatore, il fatto della feticizzazione, che nasconde il timore della castrazione, congela lo sguardo, fissa lo spettatore, e gli impedisce di frapporre una distanza fra sé e l’immagine che gli sta di fronte. Questa complessa interazione di sguardi è attributo specifico del film. Il primo colpo contro l’accumulazione monolitica delle convenzioni del film tradizionale (già avviato dai cineasti radicali) è quello di liberare lo sguardo della cinepresa nella sua materialità nel tempo e nello spazio, e lo sguardo del pubblico nella dialettica e nel distacco appassionato. Non v’è dubbio che ciò distrugga la soddisfazione, il piacere e il privilegio dell’« ospite invisibile », e ponga in risalto la dipendenza del film dai meccanismi del voyeurismo attivo/passivo. Le donne, la cui immagine è stata continuamente sottratta e usata a questo scopo, non possono vedere il declino della forma filmica tradizionale con null’altro che un rimpianto sentimentale.
Luara Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, trad. it Piacere visivo e cinema narrativo, in "nuova dwf", 8, luglio 1978.
eccezionale al quadrato
RispondiEliminacomplimenti roby...sono pochi quelli che hanno una delicatezza di animo così grande. Rita
RispondiEliminaGrazie mille Rita... in particolar modo per il sostegno che stai dando al blog...
RispondiEliminala tua passione e il tuo talento vanno sostenuti lo faccio con piacere
RispondiEliminaInteressante ma....troppo lungo!
RispondiEliminaIMBESTIALITO
RispondiElimina…ossessionato dal sesso, mai sazio,
un affamato animale domestico…
Pertinente in me.
Davvero!
Perché non l’hai fatto?
Quel tuo posteriore è un rivestimento dei miei occhi.
Ma sei sicura di una spada nuda?
La spada nuda non può solo sfregare
Preferisce una bocca violenta
Ed una schiuma calda di intimità.
Esci e avvicinati al mio corpo domani…
Ed io nudo, crudo e lenzuolo
Ti verrò incontro.
Dalla finestra senza tende della cucina
I nostri corpi
Taglieranno la luce
E i pini spioveranno sulle loro ombre.
Esci a prendere il mio corpo…
Nel resto del mondo
Lo scuro istinto
È un nudo sguainato di stalla
Imbestialito dal fallo!
Ti prego fallo per me
Fammi succhiare dalle tue mammole
Quella sorta di imprudenza
Sessuale.
Curva a pancia in su il tuo cannibalismo
E sul solito arrivista
Arrampicati
Fin dove il buio è invitato a sciogliersi.
E allora
Perché non ti accomodi da me domani…
Ma sta’ attenta
Potrei svenarti, svegliarti o salvarti davvero!
©2010
di Maurizio Spagna
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L’ideatore creativo,
paroliere, scrittore e poeta al leggìo-