lunedì 20 febbraio 2012

La crisi del dono: uno sguardo psicoanalitico sulla “Commedia all’italiana”




Se è vero quanto dice Maurizio Grande, la commedia, e in particolar modo quel filone cinematografico che prende il nome di “commedia all’italiana”, descriverebbe attraverso il comico «il malessere del soggetto che si fa io: il soggetto che trasforma le pulsioni in desideri realizzabili, in obiettivi condivisi dalla società»[1].
Secondo questa supposizione, è evidente come tale genere si presti ad interpretazioni di carattere psicoanalitico. Obiettivo di questo scritto, difatti, sarà quello di individuare, nella forma più completa e concisa, tutte le “associazioni” tra la teoria psicoanalitica, prestando particolare attenzione al pensiero teorico di Freud, e l’intreccio tematico della commedia all’italiana.
Utile per questa indagine è la definizione stessa “commedia all’italiana”, coniata già negli anni Sessanta dalla critica di sinistra, per bollare in modo sentenzioso Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961), film capostipite di un genere, che fino agli anni Settanta, avrebbe scavato, in modo feroce e cinico, nella società del dopoguerra e della ricostruzione, che si apprestava ad essere in un primo momento società del boom e, successivamente, società della crisi. Si trattava, dunque, di un modo tutto nuovo di guardare al “reale”.
Tuttavia, occorre precisare che è il reale stesso a dettare il mutamento di genere nel cinema italiano. Se la commedia “bianca” degli anni Trenta era stata un modo patinato di sfuggire alla drammaticità del fascismo, e se il neorealismo, dal canto suo, era stato una testimonianza tragica della guerra, ecco che la ricostruzione ed il boom degli anni Cinquanta e Sessanta avrebbero fornito al cinema tematiche e personaggi inediti.
Il fatto che la produzione cinematografica decida di rappresentare la realtà contemporanea attraverso l’utilizzo del comico, bisogna attribuirlo al tema stesso della forma-commedia, spiegato da Northrop Frye. Per il critico canadese, centrale, nel comico, è il tema dell’integrazione sociale, che si attua nella commedia attraverso «il movimento» di un soggetto «da un certo genere di società ad un altro»[2]. Questo è un moto che parte sempre dal basso, nel senso che il punto di vista della commedia, e quindi la sua focalizzazione sul personaggio, è incentrata, per dirla alla Bachtin, su un’operazione di “avvicinamento”:

Tutto ciò che è comico è vicino: tutta la creazione comica lavora in una zona di massimo avvicinamento. Il riso ha la forza straordinaria di avvicinare l’oggetto; esso introduce l’oggetto in una zona di brusco contatto, dove si può familiarmente tastarlo da tutte le parti… guardarlo dall’alto al basso. [3]


La commedia all’italiana, pertanto, racconta la tragedia dell’adattamento dell’individuo nella società costituita. Si tratta per lo più di antieroi e di maschere, una galleria di tipi che mettono in mostra la loro inadeguatezza e l’impossibilità di adattarsi al mondo. Sono soggetti «incapaci di subliminare le loro pulsioni represse» e di «elevarsi al di sopra della vita pulsionale grezza»[4].
            A questo punto, sarà necessario mettere momentaneamente da parte il discorso sulla commedia, per collegarci ad alcuni nodi tematici della teoria psicanalitica, elaborati da Sigmund Freud.
Come sappiamo, centrale in Freud è la teoria delle pulsioni, ove per “pulsioni” s’intende quei bisogni congeniti dell’uomo che l’Es tenta in ogni modo di soddisfare. Tuttavia, prima di arrivare a conclusioni affrettate, occorre fare chiarezza su com’è regolata la nostra psiche. Innanzitutto, è d’aiuto la sostanziale suddivisione locale che Freud fa dell’apparato psichico: in primo luogo, troviamo l’Es, il cui contenuto è «tutto ciò che ereditato, congenito, stabilito per costituzione»[5]. In altre parole nell’Es sono localizzate tutte le pulsioni dell’uomo.
A differenza dell’Es, l’Io invece è un’istanza in stretto contatto con il mondo esterno. Ogni sua attività è caratterizzata dal fatto che tende all’“autoconservazione” del corpo e della psiche. Ciò avviene attraverso il dominio degli stimoli e delle pulsioni, avvertite come fonti di dispiacere (unlust) o di piacere (lust). Il dispiacere, in genere, può dare origine all’angoscia. Per tal motivo, l’Io tende ad evitarlo.
Infine, abbiamo il Super-io, che si sviluppa nell’infanzia sotto l’influsso dell’educazione dei genitori e della tradizione razziale e sociale in cui il bambino è cresciuto. 


Partendo da queste tre località psichiche si può finalmente giungere a una definizione di pulsione (Triebe). Questa, sostiene Freud, «rappresenta la pretesa corporea nei confronti della vita psichica»[6]
Le pulsioni sono di varia natura, ed è difficile farne una catalogazione, ma è comunque possibile riunirle in due categorie fondamentali: Eros (pulsione di autoconservazione del corpo e conservazione della specie) e pulsione distruttiva o di morte (che tende a sciogliere i legami e a distruggere le cose). Queste due pulsioni agiscono in modo da fronteggiarsi continuamente, si oppongono in modo violento, al fine di dominare il corpo e la psiche.
Il nucleo delle pulsioni è residente, come abbiamo già detto in precedenza, nell’Es. Quest’ultimo non si cura di salvaguardare la sopravvivenza, al contrario, cerca di far trovare un soddisfacimento alle pulsioni. Il principio dell’Es è quello del piacere.
Se le pulsioni devono essere portate a termine o meno, questo è un compito che spetta solamente all’Io. Il processo di accoglienza delle pulsioni da parte dell’Io prende il nome di Principio di realtà, ovvero l’Io può stabilire se accettare una pulsione oppure reprimerla, se ritenuta dannosa. In questo modo l’Io assicura l’autoconservazione della specie.
Il compito dell’Io però non si esaurisce nell’esaminare le pretese pulsionali dell’Es. Un altro fronte su cui deve combattere è sicuramente quello della realtà esterna, che al pari delle pulsioni può indebolirlo, attraverso esperienze violente e traumatiche.
Tali conflitti possono, quindi, danneggiare l’Io, andando a creare nel soggetto nevrosi e psicosi.
            Questa breve e riassuntiva descrizione della teoria pulsionale di Freud può aiutarci a comprendere meglio il tentativo della commedia all’italiana di narrare le storie di personaggi tra apparenti normalità psichiche ed evidenti manifestazioni patologiche. A essere messi in scena sono soggetti dalla personalità divisa, la cui immagine (o maschera) non coincide mai con la vera natura pulsionale. Quest’ultima è sempre repressa, negata.  «Il soggetto», dice Maurizio Grande:

si enuncia, alla lettera, come soggetto, in senso negativo; vale a dire, sottoposto a pulsioni, desideri, passioni, sentimenti, ideali, mete. Obiettivi che non trovano la giusta espressione e collocazione né nei confronti della maschera della identità (l’Io) e né nei confronti della società… Il soggetto è incapace di controllare e di incanalare nella produttività passioni e aspettative. E’ incapace di ogni possibilità di subliminare le pulsioni e di farsi io sociale. [7]

Nella commedia all’italiana ci troviamo di fronte a soggettività deboli, «io infermi»[8], danneggiati dalle continue repressioni delle pulsioni. Pulsioni dell’Eros e della libido, che finiscono per tramutarsi in pulsioni di morte e di autodistruzione.
            Esempi concreti, in cui è presente il motivo nevrotico dell’inappagamento pulsionale, sono rintracciabili nelle commedie nere e grottesche di Marco Ferreri. Tra questi un caso limite è indubbiamente l’episodio Il professore (Marco Ferreri, 1964), tratto dal film Controsesso (Rossi, Ferreri, Castellani, 1964).
            La maggior parte dei film di Ferreri mettono in scena il contemporaneo attraverso la storia di personaggi inetti, nevrotici, morbosi, impotenti; di patologie che hanno sempre a che fare con le pulsioni inappagate, represse, celate nel quotidiano, nella routine fatta di tic e atti mancati. Tuttavia, com’è noto, l’atto mancato (lapsus, dimenticanze di nomi, sbadataggini, errori) rivela sempre il desiderio latente, nascosto.
Nell’episodio Il professore, Ugo Tognazzi interpreta un docente perverso e feticista, attratto sessualmente dalle sue alunne. Egli è costretto a reprimere le sue pulsioni per mantenere integra la sua posizione sociale, la figura istituzionale che incarna. Questo breve film di Ferreri costringe, però, ad aprire una parentesi su un altro elemento di carattere psicoanalitico: il feticismo. Il professore, infatti, sostituisce i suoi impulsi repressi con oggetti feticci. Egli compra la “comoda”, una vecchia sedia per i bisogni fisiologici, che mette in un armadietto, costringendo le sue alunne a orinare durante i compiti in classe. E’ lecito a questo punto domandarsi cos’è il feticismo. La giusta risposta la troviamo in un piccolo saggio di Freud del 1927, intitolata per l’appunto Feticismo. La soluzione cui arriva Freud è che il feticcio è un sostituto del pene, non uno qualsiasi, ma quello della donna e, nello specifico, quello della madre.
Nel feticismo è evidente la minaccia di castrazione, percepita nel momento in cui il bambino diventa cosciente della mancanza del pene della donna. Questo trauma può essere conservato nell’adulto. «La donna» dice Freud:

continua a possedere un pene nella sfera psichica, ma questo pene non è più lo stesso di prima . Qualcos’altro ha preso il suo posto, è per così dire stato eletto a sostituto, e ora ha ereditato l’interesse che era rivolto al pene di prima.[9]

Il fallo mancante viene, perciò, sostituito da oggetti o organi che stanno a rappresentare simbolicamente il pene. In quest’ottica, la comoda e l’urina delle alunne altro non sono che gli oggetti sostitutivi di questa mancanza. In definitiva, è possibile azzardare l’ipotesi che il film di Ferreri, sia la messa in scena di un esplicito caso clinico.



           Il discorso sulle pulsioni ci riporta al tema centrale della commedia, che come abbiamo già mostrato, è il tema dell’adattamento o integrazione sociale. Quest’ultima può avvenire solo a una condizione, ossia attraverso l’accettazione da parte del soggetto della vita adulta. In questo passaggio fondamentale dell’esistenza dell’individuo, il soggetto deve necessariamente ridefinire le proprie pulsioni, renderle socialmente accettabili.
Nella commedia all’italiana accade però che i personaggi tentano in ogni modo di sfuggire alla vita adulta, percepita come realtà pericolante, «luogo della mancanza originaria»[10], da cui scaturisce un senso di frustrazione e di castrazione.
Frustrazione e castrazione sono due elementi chiave nella psicoanalisi, e come vedremo, hanno a che fare con la vita sessuale dell’individuo. Fondamentale in questa prospettiva è il periodo dell’infanzia, momento in cui si sviluppa nel bambino la sessualità. Quest’ultima è influenzata in modo decisivo dalla cura dei genitori e provoca quello che Freud chiama “complesso di Edipo”, prendendo spunto dalla vicenda dell’eroe greco, che dopo aver ucciso il padre, prende in moglie la madre.
In tale complesso avviene nient’altro che questo: il bambino identifica come primo oggetto di desiderio sessuale il seno materno. Attraverso esso, dice Freud, la madre diventa la «prima seduttrice del bambino»[11].  Intorno ai due – tre anni, durante la fase fallica, quando il bambino inizia a percepire piacere dalla stimolazione manuale dei suoi genitali, egli desidera di «possedere fisicamente»[12] la madre.  A questo desiderio si sovrappone la volontà di sostituirsi al padre, percepito come autorità e rivale in amore. In altre parole, il bambino desidera la morte del padre. La madre, rendendosi conto dell’eccitamento sessuale del bambino, cerca in un primo momento di evitare la stimolazione manuale del suo membro, per minacciarlo, poi, di castrazione. L’esecuzione, per rendere la cosa più credibile, sarà attribuita al padre, che diventerà in via definitiva simbolo di potere e di minaccia.
Tale minaccia di castrazione diventerà reale nel momento in cui il bambino vedrà il genitale femminile. Solo a quel punto il bambino, per salvaguardare il suo organo, rinuncerà alla madre, desiderandola in segreto, tramite l’identificazione con il padre, rimanendo per lungo tempo dipendente da lei.
In questa dinamica della sessualità infantile è possibile rintracciare i due sentimenti d’indagine, ossia la frustrazione e la castrazione.
La frustrazione è prima di tutto un sentimento legato a una mancanza, che rende il soggetto inappagato; essa non può che essere originata dalla “crisi del dono”. Si tratta del momento in cui la madre non risponde più al desiderio sessuale del figlio, minacciandolo di castrazione. Jacque Lacan dirà in proposito:

Che succede, infatti, quando la madre non risponde più alla sollecitazione del desiderio, quando risponde a suo piacere? Diventa reale, diventa potenza… Insomma assistiamo ad un rovesciamento di posizioni. La madre da simbolica diventa reale e gli oggetti reali simbolici… si tratta dell’onnipotenza materna: la madre può donare qualsiasi cosa al figlio e quindi sempre deluderlo. E’ in questo senso che di fronte a lei, è sempre dipendente e senza ricorsi. [13]

A partire da tale crisi, il soggetto cercherà in ogni modo di rimpiazzare l’oggetto perduto, la madre, la donna amata, di sostituirla simbolicamente con altre donne. Nonostante questo, l’impossibile replica dell’originale si tradurrà in insoddisfazione e inappagamento perenne.
           La dinamica della frustrazione è ravvisabile in film come Divorzio all’italiana di Pietro Germi e C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974).
           Nel film di Germi, ad esempio, il personaggio del barone Cefalù, interpretato da Mastroianni, è evidentemente frustrato da una mancanza reale. Questa mancanza cerca di essere colmata nel tradimento e nell’amore per Angelica, la giovane cugina, che diventa oggetto di desiderio. Eppure anche quest’ultima genera frustrazione, perché rappresenta solo un sostituto simbolico di una mancanza reale.


            C’eravamo tanto amati, invece, racconta non una sola storia, bensì tre storie di frustrazione. I personaggi interpretati da Manfredi, Gassman e Satta Flores sono sempre alla ricerca di qualcosa che manca nella loro cornice reale e disperatamente si aggrappano a oggetti ed eventi sostitutivi: Gianni alla carriera, Nicola all’ideologia e Antonio a Luciana (Stefania Sandrelli).


             A conclusione del discorso sulla frustrazione, ritengo sia giusto fare un’osservazione sulla quasi totale assenza di figure femminili nella commedia all’italiana. La focalizzazione sul personaggio è, nella maggior parte dei casi, incentrata sul versante maschile. Questo avviene, a mio avviso, perché obiettivo ultimo della commedia è di dare un’immagine del maschio nuova, inedita. La maschera dell’uomo italiano forte e virile, esaltata durante il fascismo, tende a scollarsi nella commedia all’italiana; infatti, essa è ridisegnata e rimodellata attraverso una descrizione più reale e oggettiva. Il maschio della commedia all’italiana è una figura problematica, colta nelle sue debolezze e insoddisfazioni, il più delle volte dominata dalla potente figura della donna, che ne amministra pulsioni e desideri.
L’unico autore che, a mio modo di vedere, si è confrontato col versante femminile è stato Antonio Pietrangeli con Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1964), interpretato da una giovanissima Stefania Sandrelli. Anche in questo film, centrale è la frustrazione di un personaggio, quello della Sandrelli appunto. Il discorso sulla frustrazione qui merita una nota a parte, poiché in questo caso la sua origine è difforme rispetto a quella del maschio.
Se la frustrazione maschile era attribuita alla perdita del dono materno e alla paura di castrazione, nella donna si realizza un processo differente. In primo luogo la donna non teme di perdere il pene, ma «reagisce al fatto che non lo possiede»[14]. Di conseguenza, lo sviluppo nella donna è segnato nell’invidia del maschio e nel sentirsi inferiore ad esso. La bambina non è dipendente dalla madre, anzi se ne separa molto presto, poiché la ritiene colpevole di questa mancanza. L’amore per la madre è sostituito con l’amore per il padre. In quest’amore sono individuabili due desideri: il primo è quello di possedere il pene del padre e il secondo è quello di ottenere un bambino da lui.
La frustrazione femminile è, quindi, rintracciabile nella mancanza del pene e nella volontà di possederlo attraverso l’amore per il padre, figura che poi sarà sostituita nel tempo da altri uomini. Questo processo è definito complesso di Elettra.
Adriana (Sandrelli), in Io la conoscevo bene, è un personaggio che cerca di sostituire questa mancanza attraverso le illusioni, le ingenuità, e soprattutto attraverso rapporti occasionali con amanti, figure paterne deludenti, incapaci di riempire il vuoto, generato a sua volta dalla consapevolezza di essere venuta al mondo incompleta, senza il pene.


           Nella commedia all’italiana, come detto in precedenza, la parabola dell’adattamento dell’individuo è fortemente segnata dalla volontà del soggetto di sfuggire alla vita adulta. Quest’ultima, se da un lato genere la fobia della mancanza e della frustrazione, dall’altro genera l’ansia perturbante della castrazione, percepita già nella fase edipica.
            Si è visto come la paura di perdere il pene da parte del bambino sia accusata come minaccia della madre, la quale si rende conto di essere l’oggetto del desiderio del figlio; questa minaccia è rafforzata dalla vista del genitale femminile ed è poi trasferita al padre, che si configura come figura esecutrice. E’ l’autorità del padre ad insinuare la paura di castrazione.
            La supremazia paterna origina, dunque, il senso della legge. La  castrazione altro non è che la sanzione, il “debito simbolico”. Questa minaccia è sempre presente nell’individuo, consapevole che alla fine sarà sorpreso, colto sul fatto e dovrà pagare le sue colpe, attraverso la perdita del fallo.
          Il film della commedia all’italiana che meglio ha saputo riassumere il principio della castrazione è indubbiamente Il sorpasso (Dino Risi, 1962). Bruno Cortona, il personaggio interpretato da Vittorio Gassman, cerca in tutti i modi di scansare il debito che lo aspetta. Egli fugge dalla vita adulta, si maschera di identità che non gli appartengono, compiendo rocambolesche avventure, pur di sfuggire alla legge (la famiglia, il lavoro, i figli). La fuga dalla castrazione si dimostra, però, un fallimento annunciato. Bruno pagherà, infatti, con la morte di Roberto (Trintignant) che, come ha osservato Maurizio Grande, altro non che è il suo alter ego, l’altro se, il se da cui è sempre fuggito.


         A questo punto l’indagine associativa tra la psicoanalisi e la commedia all’italiana sembra concludersi. Si è visto come il tema dell’adattamento sociale dell’individuo, centrale nella commedia all’italiana, sia collegato con alcuni punti nevralgici del pensiero freudiano: in primo luogo la teoria delle pulsioni, pulsioni con cui il soggetto della commedia sembra dover far continuamente i conti, fino alla completa repressione. L’adattamento “forzato” dell’individuo genera a sua volta un senso di frustrazione, originato dalla crisi del dono materno, e la paura della castrazione legata alla figura paterna, simbolo della legge e della sanzione.
La commedia all’italiana sembra parlarci proprio di questo.


Roberto Mazzarelli


Bibliografia

Jacques Lacan, La relazione d’oggetto e le strutture freudiane, in Seminari di Jacques Lacan, Pratiche, Parma 1978.

Mariapia Comand, Commedia all’italiana, Il Castoro, Milano, 2010.

Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni editore, Roma, 2003.

Michail Michailovič Bachtin, Epos e romanzo, in G. Lukàcs- M. Bachtin, Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino, 1976.

Northrop Frey, Anatomia della critica, Pratiche, Parma, 1981.

Sigmund Freud, Compendia di Psicoanalisi, Newton Compton editori, Roma, 2010.

Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, Newton Compton editori, Roma, 1988.

Sigmund Freud, Sessualità e vita amorosa, Newton Compton editori, Roma, 1989.



[1] M. Grande, La commedia all’italiana, p. 39.
[2]  N. Frye, Anatomia della critica, p. 217.
[3]  M. Bachtin, Epos e romanzo, p. 202.
[4]  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 80.
[5]  Ivi, p. 55.
[6] S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 56.
[7] M.Grande, La commedia all’italiana, pp. 51-52.
[8] Ivi, p. 50.
[9]  S. Freud, Sessualità e vita amorosa, p. 277.
[10] M. Grande, La commedia all’italiana, p.79.
[11]  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 85.
[12]  Ivi, p. 86.
[13] J. Lacan, La relazione d’oggetto e le strutture freudiane, in Seminari, p. 30.
[14]  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 88.

La Talpa di Tomas Alfredson



Non capita spesso di analizzare un film dal suo titolo. Così come insegnano nei corsi di sceneggiatura, il titolo di un film è l’ultima cosa che viene scelta nel suo processo produttivo. Nell’opera di Alfredson il titolo era già preconfezionato, pronto per l’uso, tratto senza nessuno sforzo intellettuale dal romanzo omonimo di John Le Carré, qui anche produttore.
Tinker, Tailor, Soldier, Spy questo è il titolo originale e si riferisce ad un elemento del film, secondo me secondario, ovvero ai nomi in codice dei quattro sospettati traditori. All’apparenza il film (così come il romanzo di Le Carré) sembra parlarci proprio di questo, di un intrigo internazionale, di una ragnatela di sospetti, di una scacchiera in cui pedine russe e inglesi sembrano contendersi una partita, un tesoro, qualcosa che forse (non) esiste. Ma siamo convinti che questa sia la trama, la “strategia del ragno”, per citare uno dei film più belli di Bertolucci?
In questa tela di sospetti, ho la sensazione di averne uno anche io, e cioè che il testo sia solo un sotto-testo o forse sarebbe meglio dire sopra-testo, termine che rappresenta meglio il concetto di superfice. Questa superfice, potremmo definirla anche diversamente, dandogli il nome di terreno. Se al di sopra di questo terreno, abbiamo una spy story, nella profondità troveremo una trama nascosta, ma pur sempre tangibile, parlo della presenza sotterranea della talpa. E’ qui che ci viene in aiuto il titolo italiano del film, ma saremmo incompleti non dicendo che in realtà il titolo La Talpa viene dalla trasposizione televisiva diretta da John Irvin nel 1979. Ma poco importa, perché non è importante la paternità di questo secondo titolo, ma quanto la sua importanza simbolica. E’ nel concetto di “talpa” che troveremo una soluzione o meglio un’intuizione che toglierà ogni sospetto di trovarci di fronte ad un’opera di genere.
Prima di tutto bisogna definire che cosa è la talpa. Per dare una definizione tecnica mi servirò di una qualsiasi enciclopedia ed in questo caso, per pigrizia e velocità, farò riferimento a wikipedia: “La talpa (o Talpa europea) è un mammifero  soricomorfo appartenente alla famiglia dei Talpidi … È un animale solitario che trascorre la maggior parte del tempo in un complesso sistema di gallerie sotterranee, alcune più profonde … utilizzate come ripari permanenti, ed altre più superficiali, quasi al livello del suolo, che utilizzano come terreno di caccia … Ha una vista limitata compensata da olfatto e udito molto sviluppati. Il senso del tatto è anch'esso molto sviluppato … La talpa dorme soltanto 2 — 3 ore per volta. Si nutre di invertebrati che popolano il sottosuolo: lombrichi, larve, insetti e lumache. Non cade in letargo.”
Nel leggere questa definizione ammetto di aver sospettato, attraverso una serie di libere associazioni mentali, un fatto che durante la visione del film non mi era men che meno passato per la testa. Il film di Anderson ci dice che la “talpa” ovvero la spia è il personaggio interpretato da Colin Firth. Ma tuttavia ritengo che tale personaggio non abbia niente in comune con la talpa, tutt’al più potrebbe essere una lumaca, una larva, un essere viscido e strisciante, insomma un alimento prelibato della talpa.
Simbolicamente la vera talpa del film è il suo protagonista ovvero George Smiley, interpretato da un grandissimo e straniante Gary Oldman. Come la talpa Smiley è un personaggio solitario; come la talpa egli è un cacciatore e si aggira nelle zone più profonde dell’esistenza, le sue prede tramano quasi sempre nell’ombra, sotto terra; Smiley è un personaggio che ha olfatto e si muove silenziosamente; egli è miope come la talpa (basti vedere gli occhiali da vista a fondo di bottiglia che indossa) e per finire sembra non dormire mai, la sua attività si svolge sia di notte che di giorno.
Il vero interesse del film, va be al di là del racconto di genere, della trama spionistica. C’è un interesse particolareggiato per il soggetto, per l’uomo, l’anti-eroe, ovvero la talpa. Il personaggio interpretato da Oldman è singolare, fuori dalla comune cerchia di super uomini, egli si distingue per il suo essere non leone, ma talpa. E’ un genere animale inetto quello della talpa, costretto a vivere sotto terra, lontano dalla luce del sole, luce che lo accecherebbe ancora di più. Per lui la guerra è “fredda”, come freddi sono i luoghi in cui si annida.
Riassumo, e concludo, affermando la presenza di due testi nel film di Tomas Alfredson: il primo testo, in superfice, è la storia della ricerca di una spia — qui ci troviamo in contatto con un racconto di genere, quello dello spy story — ; ed il secondo testo, sotterraneo, che racconta il personaggio della “talpa” George Smiley, agente segreto tradito dalla moglie, solitario e malinconico.
A mio avviso è la seconda trama il centro nevralgico del film, ciò che rende il film di Alfredson un’opera di grande interesse.


Roberto Mazzarelli

J. Edgar - Il doppio, lo specchio e la maschera di gesso.





Ad una prima visione il nuovo film di Clint Eastwood, J. Edgar, appare un’opera stanca, deludente, per il suo non essere eastwoodiana, lontana dai livelli altissimi del nostro, che ci ha regalato opere immense negli ultimi anni (ricordo su tutti almeno tre titoli: Mistic RiverMillion Dollar Baby e Gran Torino). In un primo momento si rimane infastiditi da quel classicismo hollywoodiano, atavico, retorico e, oserei dire, ingenuo, tipico dei gangster movie e noir degli anni Trenta, raccontati in flashback attraverso la voce narrante di un “eroe”.

Se i film precedenti di Eastwood trovavano un punto di forza proprio nel classico, in J.Edgar il classico non è che il tallone d’Achille. Ma, come ho già anticipato, questa non è che un’obiezione preliminare, una “critica” o resistenza che verrà immediatamente annientata e smentita. Ad un’analisi più attenta, infatti, l’ultima opera di Eastwood si rivela essere un (s)oggetto altissimo, con il più elevato tasso di livelli d’interpretazione che si sia mai visto in uno dei suoi film.
Prendendo spunto dal pensiero freudiano, possiamo dire che J.Edgar si presenta a livello superficiale, o “manifesto”, come un’opera mediocre ma scendendo in profondità, nel “latente”, si individuano diversi strati d’interpretazione, che fanno di questo film un’opera difficile e moderna allo stesso tempo. Il riferimento a Freud non è una forzatura ma come vedremo sarà fondamentale per un’interpretazione, spero, corretta del film. Tuttavia, procediamo con ordine, e per gradi, individuando quelli che possono essere considerati i “livelli”.
Dando per scontato che il lettore abbia già visto il film, cercherò di non perdere tempo nel raccontare la trama, ed invito tutti quelli che il film non l’hanno ancora visto a rimandare tale lettura, perché d’ ora in avanti saranno prese come punto di riferimento numerose scene utili alla comprensione, rivelando di conseguenza dettagli e particolari.
Centrale in J.Edgar è senza dubbio la questione del “doppio”. Il film di Clint Eastwood si basa tutto sul senso della duplicità, intesa anche qui a più livelli: il doppio come struttura narrativa che si dipana in un gioco di specchi tra passato e presente; il doppio come maschera che rivela i particolari più agghiaccianti dell’individuo; il doppio inteso anche dal punto di vista della sessualità; ed infine il doppio quale realtà storica, quella degli Stati Uniti d’America, una realtà, sembra dirci Eastwood, da sempre raccontata tra verità e menzogna, facciata e “rapporti confidenziali”, manifesto e latente, appunto, e come vedremo in questo frangente sarà decisivo il ruolo dei media e quindi dell’informazione.
Partiamo, quindi, dalla struttura narrativa, una struttura che come abbiamo detto sin dall’inizio, è basata su modelli classici del racconto, classico non dal punto di vista aristotelico del termine, in cui vi è una linearità tra spazio e tempo. Al contrario, il termine classico va qui inteso nel senso di forma del racconto, chiusa in modelli riconoscibili, linguaggi che rientrano in una norma. I termini chiave in J. Edgar sono flashback e voce narrante, i quali sono i codici di un certo modo di fare cinema, tipici dei film noir. Tuttavia, se in tal genere il flashback veniva usato per far riaffiorare il rimosso dell’eroe, nel film di Eastwood il flashback ha una funzione del tutto inedita, perché funge da specchio tra il presente e il passato. Le azioni del J. Edgar Hoover anziano si rispecchiano, attraverso un abile montaggio alternato, con quelle del J. Edgar giovane. Le azioni del presente a distanza di anni si ripetono, quasi combaciando con quelle del passato. I personaggi sembrano destinati a rivivere gesti e situazioni di un passato incompiuto, che cerca di completarsi nel gesto presente e meccanicamente riprodotto. Ma se da una parte questo è vero, abbiamo anche detto che il flashback funziona come specchio, superficie che riflette un’immagine simile ma mai uguale, uguale si ma contraria pure, un’immagine doppia. Lo specchio rivela il vero, come può allo stesso modo restituire un’immagine distorta del reale. Questo ci viene rivelato nel finale del film, in quella che possiamo definire l’ultima cena di Edgar, durante la quale l’amante e compagno di vita Clyde Tolson dimostra ad Edgar come tutto quello che lui ha raccontato a noi spettatori non sia altro che un’immagine deformata, fatta di menzogne e ricatti.
J. Edgar, così come tutte le persone che l’hanno affiancato nei suoi circa quarant’anni alla direzione dell’FBI, sembra aver indossato per tutta la sua vita una maschera, quella maschera che, direbbe il  compianto saggista, critico ed autore Maurizio Grande, è “ la risultante di un lavoro di adattamento della faccia al volto”, è quella “combinazione di attese esterne e pulsioni interne”. Per tal motivo ritengo sia importantissimo il ruolo che ha avuto nel film il trucco, che da molti è stato largamente criticato per il suo uso poco “realistico”, o volendo usare altre espressioni, “fatto male”. Tuttavia, io ritengo che il trucco irreale di J. Edgar non solo sia stato voluto ma abbia una valenza simbolica di grande interesse, in quanto serve a mettere l’accento sulla maschera, “una maschera di gesso” per usare un’altra espressione di Grande. A dimostrazione di ciò, c’è una scena all’inizio del film che i più non ricorderanno. Faccio riferimento a quella piccola carrellata sulla vetrina di Edgar con i cosiddetti “premi di caccia”, tra i quali figura un calco di gesso del cadavere  di John Dillinger, una maschera appunto. E’ un calco di cui Edgar si vanterà sempre e che sarà sempre un fardello con cui doversi confrontare, perché quel calco è anch’esso il frutto di una menzogna (egli, infatti, non ha mai arrestato il leggendario Dillinger).
Questa maschera se da una parte serve a celebrare l’immagine di un uomo forte, dall’altra cela la sua vera identità, debole e spietata, la quale tende a reprimere ogni sorta di pulsione umana e (omo)sessuale.
J. Edgar è anche, o forse bisognerebbe dire soprattutto, una storia d’amore, quella tra il protagonista ed il suo vice Tolson; è la storia di un amore corrisposto e con molta probabilità represso, mai carnale, se non per un bacio “manifesto”.
Alla base del film sta senza dubbio l’evidente complesso di Edipo che affligge Edgar, generato dal rapporto morboso che egli ha con la madre e dalla presenza/assenza del padre, figura quest’ultima che manca sempre nei film di Eastwood (vedi il bellissimo Un mondo perfetto). Edgar vuole possedere la madre e quindi essere come lei. A tal proposito fondamentale è una delle scene più belle del film, che mette definitivamente in risalto la figura dello specchio. Parlo della scena in cui, in seguito alla morte di sua madre, J.Edgar si veste da donna dinanzi ad uno specchio, indossando vestiti e gioielli materni. E’questo il momento in cui egli scopre di amarla e di essere, al contempo, ciò che ella ha sempre sperato che il figlio non fosse, ovvero una “gerbera”, un omosessuale.
Concludo con un’ultima osservazione: ritengo che la bravura di Clint Eastwood come sempre stia nel saper raccontare storie universali, di grande interesse sociale, partendo da racconti individuali ed analizzando un singolo soggetto che, in qualche modo, si fa portavoce di determinate tematiche; Invicutus né è la dimostrazione più recente. Rapportarsi con un personaggio come quello di J. Edgar Hoover vuol dire, nel bene e nel male, confrontarsi con un pezzo molto ampio della storia degli Stati Uniti d’America. Eastwood con questo film si cimenta con quasi cinquant’anni di storia americana, e lo fa attraverso un personaggio chiave, quello di Hoover, personalità che ha influenzato storia ed immaginario collettivo. Questo perché? Perché egli più di tutti ha saputo dare, in tempi non sospetti, un ruolo fondamentale all’informazione e ai mass media, capendone l’ indiscutibile potenza. Infatti, l’immagine che Hoover ha dato di se al Paese è stata possibile solo grazie ai suoi rapporti strettissimi con i media. L’influenza che ha avuto sui giornali, sulle radio, e su tutti il cinema, mezzo che possiamo considerare anch’esso come uno specchio.
Il popolo americano rispecchiava profondamente le proprie prospettive di vita e, soprattutto, i propri desideri nelle storie dei film. Attraverso il controllo sul cinema Hoover riuscì ad indirizzare l’identificazione del pubblico in nuovi scenari e su nuovi eroi. Come dice egli stesso in una battuta del film “Se prima i bambini amavano identificarsi nei gangster adesso volevano tutti diventare poliziotti”. Si passa così da film come Nemico pubblico ai polizieschi, atti a dare l’immagine di una polizia forte e amica del popolo.
In definitiva, ciò che sembra dirci Clint Eastwood è che il sogno americano non esiste, è solo il frutto di una serie di menzogne, specchi e identità incomplete, proprio come J. Edgar Hoover.
Roberto Mazzarelli

venerdì 18 novembre 2011

Nick's Movie di Wim Wender e Nicholas Ray



Ho visto questo film di Wim Wender (e di Nicholas Ray) prima di leggere un saggio di Lucilla Albano, professoressa di interpretazione e analisi del film al Dams di Roma III. Non parlerò affatto di queste osservazioni (lucide e sincere) che potete trovare facilmente in un libro della stessa Albano, Lo schermo dei sogni | Chiavi psicoanalitiche del cinema (Marsilio editore). Ma ritengo pressapoco corretto riferire una certa influenza che tale saggio ha avuto nella mia "interpretazione" e (solo successiva) analisi di Nick's Movie - Lampi sull'acqua.  

Questo film è qualcosa di unico (anche se di questo non sono certo) nella storia della cinematografia. Unico perché indefinibile, difficilmente catalocabile in un genere filmico. Cos'è Nick's movie? Un film? un documentario? un backstage? Probabilmente si tratta sia di  un film (quindi una messa in scena), sia di un documentario (rappresentazione di una realtà che si consuma davanti la macchina da presa), e anche un backstage (ovvero il retro-scena, la truope che ricrea e fa parte della scena stessa).
Si tratta  di un confluire di punti di vista, ognuno con un suo dispositivo specifico; il film difatti è stato girato sia in 35 mm, sia in 16mm, e anche in video. Ma questi infiniti sguardi restituiscono un'unica prospettiva, quella degli ultimi giorni di vita del maestro Nicholas Ray (Gioventù Bruciata, Johnny Guitar, Il Temerario).

A dare spunto a Wenders sulla realizzazione di questo film è lo stesso Ray, ormai vecchio e deperito per colpa del cancro (sia ai polmoni che al cervello), ma pronto ad affrontare la sua più grande avventura, ovvero la morte. "L'amico americano" sa bene che la morte non è nient'altro che un "ritorno a casa", i suoi film dopotutto raccontavano proprio questo, la storia di uomini che cercano la strada verso casa. Il grande Ray era ormai pronto a dare il giusto finale a queste storie, e per farlo ha scelto il suo giovane amico Wim Wenders.
Ciò che ne esce non è niente che abbia a che fare con lo spettacolo, con la grande uscita di scena di un maestro del cinema, ma è la documentazione sincera  di una decomposizione. E' un avvicinarsi lentamente alla morte e di conseguenza alla vita, o meglio al senso della vita. Il regista americano, infatti, in questi suoi ultimi giorni, lucidi e allucinati allo stesso tempo, sembra comprendere ogni cosa. 


Eppure Ray, andando incontro alla morte, cerca "temerariamente" di aggrapparsi al presente, fino all'ultima immagine/frammento che lo riprende, dove Wenders cerca di fargli dare il "cut", lo stop delle riprese. Ray, sa bene che quello è il giusto momento per "tagliare", ma in quel momento sembra regredire ad uno stato primordiale, sembra essere ritornato un giovane autore, un dilettante, innamorato a tal punto delle immagini che gli si presentano davanti alla macchina da presa da rifiutare il gesto "immorale" del cut. Un gesto non solo immorale, ma anche "mortale". 


La morte delle immagini, la morte del reale.




Roberto Mazzarelli

venerdì 19 agosto 2011

Kubrick e la superficie culturale del film

Odio che mi si chieda di spiegare come "funziona" il film. "Spiegarli" non ha senso, ha solo una superficie "culturale" buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere.