lunedì 20 febbraio 2012

J. Edgar - Il doppio, lo specchio e la maschera di gesso.





Ad una prima visione il nuovo film di Clint Eastwood, J. Edgar, appare un’opera stanca, deludente, per il suo non essere eastwoodiana, lontana dai livelli altissimi del nostro, che ci ha regalato opere immense negli ultimi anni (ricordo su tutti almeno tre titoli: Mistic RiverMillion Dollar Baby e Gran Torino). In un primo momento si rimane infastiditi da quel classicismo hollywoodiano, atavico, retorico e, oserei dire, ingenuo, tipico dei gangster movie e noir degli anni Trenta, raccontati in flashback attraverso la voce narrante di un “eroe”.

Se i film precedenti di Eastwood trovavano un punto di forza proprio nel classico, in J.Edgar il classico non è che il tallone d’Achille. Ma, come ho già anticipato, questa non è che un’obiezione preliminare, una “critica” o resistenza che verrà immediatamente annientata e smentita. Ad un’analisi più attenta, infatti, l’ultima opera di Eastwood si rivela essere un (s)oggetto altissimo, con il più elevato tasso di livelli d’interpretazione che si sia mai visto in uno dei suoi film.
Prendendo spunto dal pensiero freudiano, possiamo dire che J.Edgar si presenta a livello superficiale, o “manifesto”, come un’opera mediocre ma scendendo in profondità, nel “latente”, si individuano diversi strati d’interpretazione, che fanno di questo film un’opera difficile e moderna allo stesso tempo. Il riferimento a Freud non è una forzatura ma come vedremo sarà fondamentale per un’interpretazione, spero, corretta del film. Tuttavia, procediamo con ordine, e per gradi, individuando quelli che possono essere considerati i “livelli”.
Dando per scontato che il lettore abbia già visto il film, cercherò di non perdere tempo nel raccontare la trama, ed invito tutti quelli che il film non l’hanno ancora visto a rimandare tale lettura, perché d’ ora in avanti saranno prese come punto di riferimento numerose scene utili alla comprensione, rivelando di conseguenza dettagli e particolari.
Centrale in J.Edgar è senza dubbio la questione del “doppio”. Il film di Clint Eastwood si basa tutto sul senso della duplicità, intesa anche qui a più livelli: il doppio come struttura narrativa che si dipana in un gioco di specchi tra passato e presente; il doppio come maschera che rivela i particolari più agghiaccianti dell’individuo; il doppio inteso anche dal punto di vista della sessualità; ed infine il doppio quale realtà storica, quella degli Stati Uniti d’America, una realtà, sembra dirci Eastwood, da sempre raccontata tra verità e menzogna, facciata e “rapporti confidenziali”, manifesto e latente, appunto, e come vedremo in questo frangente sarà decisivo il ruolo dei media e quindi dell’informazione.
Partiamo, quindi, dalla struttura narrativa, una struttura che come abbiamo detto sin dall’inizio, è basata su modelli classici del racconto, classico non dal punto di vista aristotelico del termine, in cui vi è una linearità tra spazio e tempo. Al contrario, il termine classico va qui inteso nel senso di forma del racconto, chiusa in modelli riconoscibili, linguaggi che rientrano in una norma. I termini chiave in J. Edgar sono flashback e voce narrante, i quali sono i codici di un certo modo di fare cinema, tipici dei film noir. Tuttavia, se in tal genere il flashback veniva usato per far riaffiorare il rimosso dell’eroe, nel film di Eastwood il flashback ha una funzione del tutto inedita, perché funge da specchio tra il presente e il passato. Le azioni del J. Edgar Hoover anziano si rispecchiano, attraverso un abile montaggio alternato, con quelle del J. Edgar giovane. Le azioni del presente a distanza di anni si ripetono, quasi combaciando con quelle del passato. I personaggi sembrano destinati a rivivere gesti e situazioni di un passato incompiuto, che cerca di completarsi nel gesto presente e meccanicamente riprodotto. Ma se da una parte questo è vero, abbiamo anche detto che il flashback funziona come specchio, superficie che riflette un’immagine simile ma mai uguale, uguale si ma contraria pure, un’immagine doppia. Lo specchio rivela il vero, come può allo stesso modo restituire un’immagine distorta del reale. Questo ci viene rivelato nel finale del film, in quella che possiamo definire l’ultima cena di Edgar, durante la quale l’amante e compagno di vita Clyde Tolson dimostra ad Edgar come tutto quello che lui ha raccontato a noi spettatori non sia altro che un’immagine deformata, fatta di menzogne e ricatti.
J. Edgar, così come tutte le persone che l’hanno affiancato nei suoi circa quarant’anni alla direzione dell’FBI, sembra aver indossato per tutta la sua vita una maschera, quella maschera che, direbbe il  compianto saggista, critico ed autore Maurizio Grande, è “ la risultante di un lavoro di adattamento della faccia al volto”, è quella “combinazione di attese esterne e pulsioni interne”. Per tal motivo ritengo sia importantissimo il ruolo che ha avuto nel film il trucco, che da molti è stato largamente criticato per il suo uso poco “realistico”, o volendo usare altre espressioni, “fatto male”. Tuttavia, io ritengo che il trucco irreale di J. Edgar non solo sia stato voluto ma abbia una valenza simbolica di grande interesse, in quanto serve a mettere l’accento sulla maschera, “una maschera di gesso” per usare un’altra espressione di Grande. A dimostrazione di ciò, c’è una scena all’inizio del film che i più non ricorderanno. Faccio riferimento a quella piccola carrellata sulla vetrina di Edgar con i cosiddetti “premi di caccia”, tra i quali figura un calco di gesso del cadavere  di John Dillinger, una maschera appunto. E’ un calco di cui Edgar si vanterà sempre e che sarà sempre un fardello con cui doversi confrontare, perché quel calco è anch’esso il frutto di una menzogna (egli, infatti, non ha mai arrestato il leggendario Dillinger).
Questa maschera se da una parte serve a celebrare l’immagine di un uomo forte, dall’altra cela la sua vera identità, debole e spietata, la quale tende a reprimere ogni sorta di pulsione umana e (omo)sessuale.
J. Edgar è anche, o forse bisognerebbe dire soprattutto, una storia d’amore, quella tra il protagonista ed il suo vice Tolson; è la storia di un amore corrisposto e con molta probabilità represso, mai carnale, se non per un bacio “manifesto”.
Alla base del film sta senza dubbio l’evidente complesso di Edipo che affligge Edgar, generato dal rapporto morboso che egli ha con la madre e dalla presenza/assenza del padre, figura quest’ultima che manca sempre nei film di Eastwood (vedi il bellissimo Un mondo perfetto). Edgar vuole possedere la madre e quindi essere come lei. A tal proposito fondamentale è una delle scene più belle del film, che mette definitivamente in risalto la figura dello specchio. Parlo della scena in cui, in seguito alla morte di sua madre, J.Edgar si veste da donna dinanzi ad uno specchio, indossando vestiti e gioielli materni. E’questo il momento in cui egli scopre di amarla e di essere, al contempo, ciò che ella ha sempre sperato che il figlio non fosse, ovvero una “gerbera”, un omosessuale.
Concludo con un’ultima osservazione: ritengo che la bravura di Clint Eastwood come sempre stia nel saper raccontare storie universali, di grande interesse sociale, partendo da racconti individuali ed analizzando un singolo soggetto che, in qualche modo, si fa portavoce di determinate tematiche; Invicutus né è la dimostrazione più recente. Rapportarsi con un personaggio come quello di J. Edgar Hoover vuol dire, nel bene e nel male, confrontarsi con un pezzo molto ampio della storia degli Stati Uniti d’America. Eastwood con questo film si cimenta con quasi cinquant’anni di storia americana, e lo fa attraverso un personaggio chiave, quello di Hoover, personalità che ha influenzato storia ed immaginario collettivo. Questo perché? Perché egli più di tutti ha saputo dare, in tempi non sospetti, un ruolo fondamentale all’informazione e ai mass media, capendone l’ indiscutibile potenza. Infatti, l’immagine che Hoover ha dato di se al Paese è stata possibile solo grazie ai suoi rapporti strettissimi con i media. L’influenza che ha avuto sui giornali, sulle radio, e su tutti il cinema, mezzo che possiamo considerare anch’esso come uno specchio.
Il popolo americano rispecchiava profondamente le proprie prospettive di vita e, soprattutto, i propri desideri nelle storie dei film. Attraverso il controllo sul cinema Hoover riuscì ad indirizzare l’identificazione del pubblico in nuovi scenari e su nuovi eroi. Come dice egli stesso in una battuta del film “Se prima i bambini amavano identificarsi nei gangster adesso volevano tutti diventare poliziotti”. Si passa così da film come Nemico pubblico ai polizieschi, atti a dare l’immagine di una polizia forte e amica del popolo.
In definitiva, ciò che sembra dirci Clint Eastwood è che il sogno americano non esiste, è solo il frutto di una serie di menzogne, specchi e identità incomplete, proprio come J. Edgar Hoover.
Roberto Mazzarelli

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