Se
è vero quanto dice Maurizio Grande, la commedia, e in particolar modo quel
filone cinematografico che prende il nome di “commedia all’italiana”,
descriverebbe attraverso il comico «il
malessere del soggetto che si fa io: il soggetto che trasforma le pulsioni
in desideri realizzabili, in obiettivi condivisi dalla società»[1].
Secondo
questa supposizione, è evidente come tale genere si presti ad interpretazioni
di carattere psicoanalitico. Obiettivo di questo scritto, difatti, sarà quello
di individuare, nella forma più completa e concisa, tutte le “associazioni”
tra la teoria psicoanalitica, prestando particolare attenzione al pensiero
teorico di Freud, e l’intreccio tematico della commedia all’italiana.
Utile
per questa indagine è la definizione stessa “commedia all’italiana”, coniata
già negli anni Sessanta dalla critica di sinistra, per bollare in modo
sentenzioso Divorzio all’italiana (Pietro
Germi, 1961), film capostipite di un genere, che fino agli anni Settanta,
avrebbe scavato, in modo feroce e cinico, nella società del dopoguerra e della
ricostruzione, che si apprestava ad essere in un primo momento società del boom
e, successivamente, società della crisi. Si trattava, dunque, di un modo tutto
nuovo di guardare al “reale”.
Tuttavia,
occorre precisare che è il reale stesso a dettare il mutamento di genere nel
cinema italiano. Se la commedia “bianca” degli anni Trenta era stata un modo
patinato di sfuggire alla drammaticità del fascismo, e se il neorealismo, dal
canto suo, era stato una testimonianza tragica della guerra, ecco che la
ricostruzione ed il boom degli anni Cinquanta e Sessanta avrebbero fornito al
cinema tematiche e personaggi inediti.
Il
fatto che la produzione cinematografica decida di rappresentare la realtà
contemporanea attraverso l’utilizzo del comico, bisogna attribuirlo al tema
stesso della forma-commedia, spiegato da Northrop Frye. Per il critico canadese,
centrale, nel comico, è il tema dell’integrazione sociale, che si attua nella
commedia attraverso «il movimento» di un soggetto «da un certo genere di società ad un altro»[2]. Questo è un moto che parte sempre dal
basso, nel senso che il punto di vista della commedia, e quindi la sua
focalizzazione sul personaggio, è incentrata, per dirla alla Bachtin, su
un’operazione di “avvicinamento”:
Tutto ciò che è comico è vicino: tutta la
creazione comica lavora in una zona di massimo avvicinamento. Il riso ha la
forza straordinaria di avvicinare l’oggetto; esso introduce l’oggetto in una
zona di brusco contatto, dove si può familiarmente tastarlo da tutte le parti… guardarlo
dall’alto al basso. [3]
La
commedia all’italiana, pertanto, racconta la tragedia dell’adattamento
dell’individuo nella società costituita. Si tratta per lo più di antieroi e di
maschere, una galleria di tipi che mettono in mostra la loro inadeguatezza e l’impossibilità
di adattarsi al mondo. Sono soggetti «incapaci di subliminare le loro pulsioni
represse» e di «elevarsi
al di sopra della vita pulsionale grezza»[4].
A questo punto, sarà necessario
mettere momentaneamente da parte il discorso sulla commedia, per collegarci ad
alcuni nodi tematici della teoria psicanalitica, elaborati da Sigmund Freud.
Come
sappiamo, centrale in Freud è la teoria delle pulsioni, ove per “pulsioni”
s’intende quei bisogni congeniti dell’uomo che l’Es tenta in ogni modo di soddisfare. Tuttavia, prima di arrivare a
conclusioni affrettate, occorre fare chiarezza su com’è regolata la nostra
psiche. Innanzitutto, è d’aiuto la sostanziale suddivisione locale che Freud fa
dell’apparato psichico: in primo luogo, troviamo l’Es, il cui contenuto è «tutto ciò che ereditato, congenito,
stabilito per costituzione»[5]. In altre parole nell’Es sono localizzate tutte le pulsioni
dell’uomo.
A
differenza dell’Es, l’Io invece è un’istanza in stretto
contatto con il mondo esterno. Ogni sua attività è caratterizzata dal fatto che
tende all’“autoconservazione” del corpo e della psiche. Ciò avviene attraverso il
dominio degli stimoli e delle pulsioni, avvertite come fonti di dispiacere (unlust) o di piacere (lust). Il dispiacere, in genere, può dare
origine all’angoscia. Per tal motivo, l’Io
tende ad evitarlo.
Infine,
abbiamo il Super-io, che si sviluppa
nell’infanzia sotto l’influsso dell’educazione dei genitori e della tradizione
razziale e sociale in cui il bambino è cresciuto.
Partendo
da queste tre località psichiche si può finalmente giungere a una definizione
di pulsione (Triebe). Questa,
sostiene Freud, «rappresenta la pretesa corporea nei confronti della vita
psichica»[6].
Le
pulsioni sono di varia natura, ed è difficile farne una catalogazione, ma è
comunque possibile riunirle in due categorie fondamentali: Eros (pulsione di autoconservazione del corpo e conservazione della
specie) e pulsione distruttiva o di morte (che tende a sciogliere i
legami e a distruggere le cose). Queste due pulsioni agiscono in modo da
fronteggiarsi continuamente, si oppongono in modo violento, al fine di dominare
il corpo e la psiche.
Il
nucleo delle pulsioni è residente, come abbiamo già detto in precedenza, nell’Es. Quest’ultimo non si cura di salvaguardare
la sopravvivenza, al contrario, cerca di far trovare un soddisfacimento alle
pulsioni. Il principio dell’Es è
quello del piacere.
Se
le pulsioni devono essere portate a termine o meno, questo è un compito che
spetta solamente all’Io. Il processo
di accoglienza delle pulsioni da parte dell’Io
prende il nome di Principio di realtà,
ovvero l’Io può stabilire se
accettare una pulsione oppure reprimerla, se ritenuta dannosa. In questo modo
l’Io assicura l’autoconservazione
della specie.
Il
compito dell’Io però non si esaurisce
nell’esaminare le pretese pulsionali dell’Es.
Un altro fronte su cui deve combattere è sicuramente quello della realtà
esterna, che al pari delle pulsioni può indebolirlo, attraverso esperienze
violente e traumatiche.
Tali
conflitti possono, quindi, danneggiare l’Io,
andando a creare nel soggetto nevrosi e psicosi.
Questa breve e riassuntiva
descrizione della teoria pulsionale di Freud può aiutarci a comprendere meglio il
tentativo della commedia all’italiana di narrare le storie di personaggi tra
apparenti normalità psichiche ed evidenti manifestazioni patologiche. A essere
messi in scena sono soggetti dalla personalità divisa, la cui immagine (o maschera)
non coincide mai con la vera natura pulsionale. Quest’ultima è sempre repressa,
negata. «Il soggetto», dice Maurizio Grande:
si enuncia, alla lettera, come soggetto, in
senso negativo; vale a dire, sottoposto a pulsioni, desideri, passioni,
sentimenti, ideali, mete. Obiettivi che non trovano la giusta espressione e
collocazione né nei confronti della maschera della identità (l’Io) e né nei
confronti della società… Il soggetto è incapace di controllare e di incanalare
nella produttività passioni e aspettative. E’ incapace di ogni possibilità di
subliminare le pulsioni e di farsi io sociale. [7]
Nella
commedia all’italiana ci troviamo di fronte a soggettività deboli, «io infermi»[8], danneggiati dalle continue repressioni
delle pulsioni. Pulsioni dell’Eros e della libido, che finiscono per tramutarsi
in pulsioni di morte e di autodistruzione.
Esempi concreti, in cui è presente
il motivo nevrotico dell’inappagamento pulsionale, sono rintracciabili nelle
commedie nere e grottesche di Marco Ferreri. Tra questi un caso limite è
indubbiamente l’episodio Il professore (Marco
Ferreri, 1964), tratto dal film Controsesso
(Rossi, Ferreri, Castellani, 1964).
La maggior parte dei film di
Ferreri mettono in scena il contemporaneo attraverso la storia di personaggi
inetti, nevrotici, morbosi, impotenti; di patologie che hanno sempre a che fare
con le pulsioni inappagate, represse, celate nel quotidiano, nella routine
fatta di tic e atti mancati. Tuttavia, com’è noto, l’atto mancato (lapsus,
dimenticanze di nomi, sbadataggini, errori) rivela sempre il desiderio latente,
nascosto.
Nell’episodio
Il professore, Ugo Tognazzi
interpreta un docente perverso e feticista, attratto sessualmente dalle sue
alunne. Egli è costretto a reprimere le sue pulsioni per mantenere integra la
sua posizione sociale, la figura istituzionale che incarna. Questo breve film
di Ferreri costringe, però, ad aprire una parentesi su un altro elemento di
carattere psicoanalitico: il feticismo. Il professore, infatti, sostituisce i
suoi impulsi repressi con oggetti feticci. Egli compra la “comoda”, una vecchia
sedia per i bisogni fisiologici, che mette in un armadietto, costringendo le
sue alunne a orinare durante i compiti in classe. E’ lecito a questo punto
domandarsi cos’è il feticismo. La giusta risposta la troviamo in un piccolo
saggio di Freud del 1927, intitolata per l’appunto Feticismo. La soluzione cui arriva Freud è che il feticcio è un
sostituto del pene, non uno qualsiasi, ma quello della donna e, nello
specifico, quello della madre.
Nel
feticismo è evidente la minaccia di castrazione, percepita nel momento in cui
il bambino diventa cosciente della mancanza del pene della donna. Questo trauma
può essere conservato nell’adulto. «La donna» dice Freud:
continua a possedere un pene nella sfera
psichica, ma questo pene non è più lo stesso di prima . Qualcos’altro ha preso
il suo posto, è per così dire stato eletto a sostituto, e ora ha ereditato
l’interesse che era rivolto al pene di prima.[9]
Il
fallo mancante viene, perciò, sostituito da oggetti o organi che stanno a
rappresentare simbolicamente il pene. In quest’ottica, la comoda e l’urina
delle alunne altro non sono che gli oggetti sostitutivi di questa mancanza. In
definitiva, è possibile azzardare l’ipotesi che il film di Ferreri, sia la
messa in scena di un esplicito caso clinico.
Il discorso sulle pulsioni ci riporta al
tema centrale della commedia, che come abbiamo già mostrato, è il tema
dell’adattamento o integrazione sociale. Quest’ultima può avvenire solo a una
condizione, ossia attraverso l’accettazione da parte del soggetto della vita
adulta. In questo passaggio fondamentale dell’esistenza dell’individuo, il
soggetto deve necessariamente ridefinire le proprie pulsioni, renderle
socialmente accettabili.
Nella
commedia all’italiana accade però che i personaggi tentano in ogni modo di
sfuggire alla vita adulta, percepita come realtà pericolante, «luogo della mancanza
originaria»[10], da cui scaturisce un senso di frustrazione
e di castrazione.
Frustrazione e castrazione
sono due elementi chiave nella psicoanalisi, e come vedremo, hanno a che fare
con la vita sessuale dell’individuo. Fondamentale in questa prospettiva è il
periodo dell’infanzia, momento in cui si sviluppa nel bambino la sessualità.
Quest’ultima è influenzata in modo decisivo dalla cura dei genitori e provoca quello
che Freud chiama “complesso di Edipo”, prendendo spunto dalla vicenda dell’eroe
greco, che dopo aver ucciso il padre, prende in moglie la madre.
In
tale complesso avviene nient’altro che questo: il bambino identifica come primo
oggetto di desiderio sessuale il seno materno. Attraverso esso, dice Freud, la
madre diventa la «prima seduttrice del bambino»[11]. Intorno
ai due – tre anni, durante la fase fallica, quando il bambino inizia a
percepire piacere dalla stimolazione manuale dei suoi genitali, egli desidera
di «possedere fisicamente»[12] la madre. A questo desiderio si sovrappone la volontà
di sostituirsi al padre, percepito come autorità e rivale in amore. In altre
parole, il bambino desidera la morte del padre. La madre, rendendosi conto
dell’eccitamento sessuale del bambino, cerca in un primo momento di evitare la
stimolazione manuale del suo membro, per minacciarlo, poi, di castrazione.
L’esecuzione, per rendere la cosa più credibile, sarà attribuita al padre, che
diventerà in via definitiva simbolo di potere e di minaccia.
Tale
minaccia di castrazione diventerà reale nel momento in cui il bambino vedrà il
genitale femminile. Solo a quel punto il bambino, per salvaguardare il suo
organo, rinuncerà alla madre, desiderandola in segreto, tramite l’identificazione
con il padre, rimanendo per lungo tempo dipendente da lei.
In
questa dinamica della sessualità infantile è possibile rintracciare i due
sentimenti d’indagine, ossia la frustrazione e la castrazione.
La
frustrazione è prima di tutto un sentimento legato a una mancanza, che rende il
soggetto inappagato; essa non può che essere originata dalla “crisi del dono”.
Si tratta del momento in cui la madre non risponde più al desiderio sessuale
del figlio, minacciandolo di castrazione. Jacque Lacan dirà in proposito:
Che succede, infatti, quando la madre non
risponde più alla sollecitazione del desiderio, quando risponde a suo piacere?
Diventa reale, diventa potenza… Insomma assistiamo ad un rovesciamento di
posizioni. La madre da simbolica diventa reale e gli oggetti reali simbolici…
si tratta dell’onnipotenza materna: la madre può donare qualsiasi cosa al
figlio e quindi sempre deluderlo. E’ in questo senso che di fronte a lei, è
sempre dipendente e senza ricorsi. [13]
A
partire da tale crisi, il soggetto cercherà in ogni modo di rimpiazzare
l’oggetto perduto, la madre, la donna amata, di sostituirla simbolicamente con
altre donne. Nonostante questo, l’impossibile replica dell’originale si
tradurrà in insoddisfazione e inappagamento perenne.
La dinamica della frustrazione è
ravvisabile in film come Divorzio
all’italiana di Pietro Germi e C’eravamo
tanto amati (Ettore Scola, 1974).
Nel film di Germi, ad esempio, il
personaggio del barone Cefalù, interpretato da Mastroianni, è evidentemente
frustrato da una mancanza reale. Questa mancanza cerca di essere colmata nel
tradimento e nell’amore per Angelica, la giovane cugina, che diventa oggetto di
desiderio. Eppure anche quest’ultima genera frustrazione, perché rappresenta
solo un sostituto simbolico di una mancanza reale.
C’eravamo
tanto amati, invece, racconta
non una sola storia, bensì tre storie di frustrazione. I personaggi
interpretati da Manfredi, Gassman e Satta Flores sono sempre alla ricerca di
qualcosa che manca nella loro cornice reale e disperatamente si aggrappano a
oggetti ed eventi sostitutivi: Gianni alla carriera, Nicola all’ideologia e
Antonio a Luciana (Stefania Sandrelli).
A conclusione del discorso sulla
frustrazione, ritengo sia giusto fare un’osservazione sulla quasi totale
assenza di figure femminili nella commedia all’italiana. La focalizzazione sul
personaggio è, nella maggior parte dei casi, incentrata sul versante maschile.
Questo avviene, a mio avviso, perché obiettivo ultimo della commedia è di dare
un’immagine del maschio nuova, inedita. La maschera dell’uomo italiano forte e
virile, esaltata durante il fascismo, tende a scollarsi nella commedia
all’italiana; infatti, essa è ridisegnata e rimodellata attraverso una
descrizione più reale e oggettiva. Il maschio della commedia all’italiana è una
figura problematica, colta nelle sue debolezze e insoddisfazioni, il più delle
volte dominata dalla potente figura della donna, che ne amministra pulsioni e
desideri.
L’unico
autore che, a mio modo di vedere, si è confrontato col versante femminile è
stato Antonio Pietrangeli con Io la
conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1964), interpretato da una
giovanissima Stefania Sandrelli. Anche in questo film, centrale è la
frustrazione di un personaggio, quello della Sandrelli appunto. Il discorso
sulla frustrazione qui merita una nota a parte, poiché in questo caso la sua
origine è difforme rispetto a quella del maschio.
Se
la frustrazione maschile era attribuita alla perdita del dono materno e alla
paura di castrazione, nella donna si realizza un processo differente. In primo
luogo la donna non teme di perdere il pene, ma «reagisce al fatto che non lo
possiede»[14]. Di conseguenza, lo sviluppo nella donna
è segnato nell’invidia del maschio e nel sentirsi inferiore ad esso. La bambina
non è dipendente dalla madre, anzi se ne separa molto presto, poiché la ritiene
colpevole di questa mancanza. L’amore per la madre è sostituito con l’amore per
il padre. In quest’amore sono individuabili due desideri: il primo è quello di
possedere il pene del padre e il secondo è quello di ottenere un bambino da
lui.
La
frustrazione femminile è, quindi, rintracciabile nella mancanza del pene e
nella volontà di possederlo attraverso l’amore per il padre, figura che poi sarà
sostituita nel tempo da altri uomini. Questo processo è definito complesso di
Elettra.
Adriana
(Sandrelli), in Io la conoscevo bene,
è un personaggio che cerca di sostituire questa mancanza attraverso le illusioni,
le ingenuità, e soprattutto attraverso rapporti occasionali con amanti, figure
paterne deludenti, incapaci di riempire il vuoto, generato a sua volta dalla
consapevolezza di essere venuta al mondo incompleta, senza il pene.
Nella commedia all’italiana, come detto
in precedenza, la parabola dell’adattamento dell’individuo è fortemente segnata
dalla volontà del soggetto di sfuggire alla vita adulta. Quest’ultima, se da un
lato genere la fobia della mancanza e della frustrazione, dall’altro genera
l’ansia perturbante della castrazione, percepita già nella fase edipica.
Si è visto come la paura di perdere
il pene da parte del bambino sia accusata come minaccia della madre, la quale si
rende conto di essere l’oggetto del desiderio del figlio; questa minaccia è
rafforzata dalla vista del genitale femminile ed è poi trasferita al padre, che
si configura come figura esecutrice. E’ l’autorità del padre ad insinuare la
paura di castrazione.
La supremazia paterna origina,
dunque, il senso della legge. La castrazione altro non è che la sanzione, il
“debito simbolico”. Questa minaccia è sempre presente nell’individuo,
consapevole che alla fine sarà sorpreso, colto sul fatto e dovrà pagare le sue
colpe, attraverso la perdita del fallo.
Il film della commedia all’italiana
che meglio ha saputo riassumere il principio della castrazione è indubbiamente Il sorpasso (Dino Risi, 1962). Bruno
Cortona, il personaggio interpretato da Vittorio Gassman, cerca in tutti i modi
di scansare il debito che lo aspetta. Egli fugge dalla vita adulta, si maschera
di identità che non gli appartengono, compiendo rocambolesche avventure, pur di
sfuggire alla legge (la famiglia, il lavoro, i figli). La fuga dalla castrazione
si dimostra, però, un fallimento annunciato. Bruno pagherà, infatti, con la
morte di Roberto (Trintignant) che, come ha osservato Maurizio Grande, altro
non che è il suo alter ego, l’altro se, il se da cui è sempre fuggito.
A questo punto l’indagine associativa
tra la psicoanalisi e la commedia all’italiana sembra concludersi. Si è visto
come il tema dell’adattamento sociale dell’individuo, centrale nella commedia
all’italiana, sia collegato con alcuni punti nevralgici del pensiero freudiano:
in primo luogo la teoria delle pulsioni, pulsioni con cui il soggetto della commedia
sembra dover far continuamente i conti, fino alla completa repressione.
L’adattamento “forzato” dell’individuo genera a sua volta un senso di
frustrazione, originato dalla crisi del dono materno, e la paura della
castrazione legata alla figura paterna, simbolo della legge e della sanzione.
La
commedia all’italiana sembra parlarci proprio di questo.
Roberto Mazzarelli
Bibliografia
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Mariapia
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Michail Michailovič Bachtin, Epos e romanzo, in G. Lukàcs- M. Bachtin, Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino, 1976.
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Frey, Anatomia della critica,
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Sigmund
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Newton Compton editori, Roma, 2010.
Sigmund
Freud, Psicopatologia della vita
quotidiana, Newton Compton editori, Roma, 1988.
Sigmund
Freud, Sessualità e vita amorosa,
Newton Compton editori, Roma, 1989.
[1] M. Grande, La commedia all’italiana, p. 39.
[2] N. Frye, Anatomia
della critica, p. 217.
[3] M. Bachtin, Epos e
romanzo, p. 202.
[4] S. Freud, Compendio di
psicoanalisi, p. 80.
[5] Ivi, p. 55.
[6] S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 56.
[7] M.Grande, La commedia all’italiana, pp. 51-52.
[8] Ivi, p. 50.
[9] S. Freud, Sessualità
e vita amorosa, p. 277.
[10] M. Grande, La commedia all’italiana, p.79.
[11] S. Freud, Compendio di
psicoanalisi, p. 85.
[12] Ivi, p. 86.
[13] J. Lacan, La relazione d’oggetto e le strutture
freudiane, in Seminari, p. 30.
[14] S. Freud, Compendio di
psicoanalisi, p. 88.
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