lunedì 20 febbraio 2012

La crisi del dono: uno sguardo psicoanalitico sulla “Commedia all’italiana”




Se è vero quanto dice Maurizio Grande, la commedia, e in particolar modo quel filone cinematografico che prende il nome di “commedia all’italiana”, descriverebbe attraverso il comico «il malessere del soggetto che si fa io: il soggetto che trasforma le pulsioni in desideri realizzabili, in obiettivi condivisi dalla società»[1].
Secondo questa supposizione, è evidente come tale genere si presti ad interpretazioni di carattere psicoanalitico. Obiettivo di questo scritto, difatti, sarà quello di individuare, nella forma più completa e concisa, tutte le “associazioni” tra la teoria psicoanalitica, prestando particolare attenzione al pensiero teorico di Freud, e l’intreccio tematico della commedia all’italiana.
Utile per questa indagine è la definizione stessa “commedia all’italiana”, coniata già negli anni Sessanta dalla critica di sinistra, per bollare in modo sentenzioso Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961), film capostipite di un genere, che fino agli anni Settanta, avrebbe scavato, in modo feroce e cinico, nella società del dopoguerra e della ricostruzione, che si apprestava ad essere in un primo momento società del boom e, successivamente, società della crisi. Si trattava, dunque, di un modo tutto nuovo di guardare al “reale”.
Tuttavia, occorre precisare che è il reale stesso a dettare il mutamento di genere nel cinema italiano. Se la commedia “bianca” degli anni Trenta era stata un modo patinato di sfuggire alla drammaticità del fascismo, e se il neorealismo, dal canto suo, era stato una testimonianza tragica della guerra, ecco che la ricostruzione ed il boom degli anni Cinquanta e Sessanta avrebbero fornito al cinema tematiche e personaggi inediti.
Il fatto che la produzione cinematografica decida di rappresentare la realtà contemporanea attraverso l’utilizzo del comico, bisogna attribuirlo al tema stesso della forma-commedia, spiegato da Northrop Frye. Per il critico canadese, centrale, nel comico, è il tema dell’integrazione sociale, che si attua nella commedia attraverso «il movimento» di un soggetto «da un certo genere di società ad un altro»[2]. Questo è un moto che parte sempre dal basso, nel senso che il punto di vista della commedia, e quindi la sua focalizzazione sul personaggio, è incentrata, per dirla alla Bachtin, su un’operazione di “avvicinamento”:

Tutto ciò che è comico è vicino: tutta la creazione comica lavora in una zona di massimo avvicinamento. Il riso ha la forza straordinaria di avvicinare l’oggetto; esso introduce l’oggetto in una zona di brusco contatto, dove si può familiarmente tastarlo da tutte le parti… guardarlo dall’alto al basso. [3]


La commedia all’italiana, pertanto, racconta la tragedia dell’adattamento dell’individuo nella società costituita. Si tratta per lo più di antieroi e di maschere, una galleria di tipi che mettono in mostra la loro inadeguatezza e l’impossibilità di adattarsi al mondo. Sono soggetti «incapaci di subliminare le loro pulsioni represse» e di «elevarsi al di sopra della vita pulsionale grezza»[4].
            A questo punto, sarà necessario mettere momentaneamente da parte il discorso sulla commedia, per collegarci ad alcuni nodi tematici della teoria psicanalitica, elaborati da Sigmund Freud.
Come sappiamo, centrale in Freud è la teoria delle pulsioni, ove per “pulsioni” s’intende quei bisogni congeniti dell’uomo che l’Es tenta in ogni modo di soddisfare. Tuttavia, prima di arrivare a conclusioni affrettate, occorre fare chiarezza su com’è regolata la nostra psiche. Innanzitutto, è d’aiuto la sostanziale suddivisione locale che Freud fa dell’apparato psichico: in primo luogo, troviamo l’Es, il cui contenuto è «tutto ciò che ereditato, congenito, stabilito per costituzione»[5]. In altre parole nell’Es sono localizzate tutte le pulsioni dell’uomo.
A differenza dell’Es, l’Io invece è un’istanza in stretto contatto con il mondo esterno. Ogni sua attività è caratterizzata dal fatto che tende all’“autoconservazione” del corpo e della psiche. Ciò avviene attraverso il dominio degli stimoli e delle pulsioni, avvertite come fonti di dispiacere (unlust) o di piacere (lust). Il dispiacere, in genere, può dare origine all’angoscia. Per tal motivo, l’Io tende ad evitarlo.
Infine, abbiamo il Super-io, che si sviluppa nell’infanzia sotto l’influsso dell’educazione dei genitori e della tradizione razziale e sociale in cui il bambino è cresciuto. 


Partendo da queste tre località psichiche si può finalmente giungere a una definizione di pulsione (Triebe). Questa, sostiene Freud, «rappresenta la pretesa corporea nei confronti della vita psichica»[6]
Le pulsioni sono di varia natura, ed è difficile farne una catalogazione, ma è comunque possibile riunirle in due categorie fondamentali: Eros (pulsione di autoconservazione del corpo e conservazione della specie) e pulsione distruttiva o di morte (che tende a sciogliere i legami e a distruggere le cose). Queste due pulsioni agiscono in modo da fronteggiarsi continuamente, si oppongono in modo violento, al fine di dominare il corpo e la psiche.
Il nucleo delle pulsioni è residente, come abbiamo già detto in precedenza, nell’Es. Quest’ultimo non si cura di salvaguardare la sopravvivenza, al contrario, cerca di far trovare un soddisfacimento alle pulsioni. Il principio dell’Es è quello del piacere.
Se le pulsioni devono essere portate a termine o meno, questo è un compito che spetta solamente all’Io. Il processo di accoglienza delle pulsioni da parte dell’Io prende il nome di Principio di realtà, ovvero l’Io può stabilire se accettare una pulsione oppure reprimerla, se ritenuta dannosa. In questo modo l’Io assicura l’autoconservazione della specie.
Il compito dell’Io però non si esaurisce nell’esaminare le pretese pulsionali dell’Es. Un altro fronte su cui deve combattere è sicuramente quello della realtà esterna, che al pari delle pulsioni può indebolirlo, attraverso esperienze violente e traumatiche.
Tali conflitti possono, quindi, danneggiare l’Io, andando a creare nel soggetto nevrosi e psicosi.
            Questa breve e riassuntiva descrizione della teoria pulsionale di Freud può aiutarci a comprendere meglio il tentativo della commedia all’italiana di narrare le storie di personaggi tra apparenti normalità psichiche ed evidenti manifestazioni patologiche. A essere messi in scena sono soggetti dalla personalità divisa, la cui immagine (o maschera) non coincide mai con la vera natura pulsionale. Quest’ultima è sempre repressa, negata.  «Il soggetto», dice Maurizio Grande:

si enuncia, alla lettera, come soggetto, in senso negativo; vale a dire, sottoposto a pulsioni, desideri, passioni, sentimenti, ideali, mete. Obiettivi che non trovano la giusta espressione e collocazione né nei confronti della maschera della identità (l’Io) e né nei confronti della società… Il soggetto è incapace di controllare e di incanalare nella produttività passioni e aspettative. E’ incapace di ogni possibilità di subliminare le pulsioni e di farsi io sociale. [7]

Nella commedia all’italiana ci troviamo di fronte a soggettività deboli, «io infermi»[8], danneggiati dalle continue repressioni delle pulsioni. Pulsioni dell’Eros e della libido, che finiscono per tramutarsi in pulsioni di morte e di autodistruzione.
            Esempi concreti, in cui è presente il motivo nevrotico dell’inappagamento pulsionale, sono rintracciabili nelle commedie nere e grottesche di Marco Ferreri. Tra questi un caso limite è indubbiamente l’episodio Il professore (Marco Ferreri, 1964), tratto dal film Controsesso (Rossi, Ferreri, Castellani, 1964).
            La maggior parte dei film di Ferreri mettono in scena il contemporaneo attraverso la storia di personaggi inetti, nevrotici, morbosi, impotenti; di patologie che hanno sempre a che fare con le pulsioni inappagate, represse, celate nel quotidiano, nella routine fatta di tic e atti mancati. Tuttavia, com’è noto, l’atto mancato (lapsus, dimenticanze di nomi, sbadataggini, errori) rivela sempre il desiderio latente, nascosto.
Nell’episodio Il professore, Ugo Tognazzi interpreta un docente perverso e feticista, attratto sessualmente dalle sue alunne. Egli è costretto a reprimere le sue pulsioni per mantenere integra la sua posizione sociale, la figura istituzionale che incarna. Questo breve film di Ferreri costringe, però, ad aprire una parentesi su un altro elemento di carattere psicoanalitico: il feticismo. Il professore, infatti, sostituisce i suoi impulsi repressi con oggetti feticci. Egli compra la “comoda”, una vecchia sedia per i bisogni fisiologici, che mette in un armadietto, costringendo le sue alunne a orinare durante i compiti in classe. E’ lecito a questo punto domandarsi cos’è il feticismo. La giusta risposta la troviamo in un piccolo saggio di Freud del 1927, intitolata per l’appunto Feticismo. La soluzione cui arriva Freud è che il feticcio è un sostituto del pene, non uno qualsiasi, ma quello della donna e, nello specifico, quello della madre.
Nel feticismo è evidente la minaccia di castrazione, percepita nel momento in cui il bambino diventa cosciente della mancanza del pene della donna. Questo trauma può essere conservato nell’adulto. «La donna» dice Freud:

continua a possedere un pene nella sfera psichica, ma questo pene non è più lo stesso di prima . Qualcos’altro ha preso il suo posto, è per così dire stato eletto a sostituto, e ora ha ereditato l’interesse che era rivolto al pene di prima.[9]

Il fallo mancante viene, perciò, sostituito da oggetti o organi che stanno a rappresentare simbolicamente il pene. In quest’ottica, la comoda e l’urina delle alunne altro non sono che gli oggetti sostitutivi di questa mancanza. In definitiva, è possibile azzardare l’ipotesi che il film di Ferreri, sia la messa in scena di un esplicito caso clinico.



           Il discorso sulle pulsioni ci riporta al tema centrale della commedia, che come abbiamo già mostrato, è il tema dell’adattamento o integrazione sociale. Quest’ultima può avvenire solo a una condizione, ossia attraverso l’accettazione da parte del soggetto della vita adulta. In questo passaggio fondamentale dell’esistenza dell’individuo, il soggetto deve necessariamente ridefinire le proprie pulsioni, renderle socialmente accettabili.
Nella commedia all’italiana accade però che i personaggi tentano in ogni modo di sfuggire alla vita adulta, percepita come realtà pericolante, «luogo della mancanza originaria»[10], da cui scaturisce un senso di frustrazione e di castrazione.
Frustrazione e castrazione sono due elementi chiave nella psicoanalisi, e come vedremo, hanno a che fare con la vita sessuale dell’individuo. Fondamentale in questa prospettiva è il periodo dell’infanzia, momento in cui si sviluppa nel bambino la sessualità. Quest’ultima è influenzata in modo decisivo dalla cura dei genitori e provoca quello che Freud chiama “complesso di Edipo”, prendendo spunto dalla vicenda dell’eroe greco, che dopo aver ucciso il padre, prende in moglie la madre.
In tale complesso avviene nient’altro che questo: il bambino identifica come primo oggetto di desiderio sessuale il seno materno. Attraverso esso, dice Freud, la madre diventa la «prima seduttrice del bambino»[11].  Intorno ai due – tre anni, durante la fase fallica, quando il bambino inizia a percepire piacere dalla stimolazione manuale dei suoi genitali, egli desidera di «possedere fisicamente»[12] la madre.  A questo desiderio si sovrappone la volontà di sostituirsi al padre, percepito come autorità e rivale in amore. In altre parole, il bambino desidera la morte del padre. La madre, rendendosi conto dell’eccitamento sessuale del bambino, cerca in un primo momento di evitare la stimolazione manuale del suo membro, per minacciarlo, poi, di castrazione. L’esecuzione, per rendere la cosa più credibile, sarà attribuita al padre, che diventerà in via definitiva simbolo di potere e di minaccia.
Tale minaccia di castrazione diventerà reale nel momento in cui il bambino vedrà il genitale femminile. Solo a quel punto il bambino, per salvaguardare il suo organo, rinuncerà alla madre, desiderandola in segreto, tramite l’identificazione con il padre, rimanendo per lungo tempo dipendente da lei.
In questa dinamica della sessualità infantile è possibile rintracciare i due sentimenti d’indagine, ossia la frustrazione e la castrazione.
La frustrazione è prima di tutto un sentimento legato a una mancanza, che rende il soggetto inappagato; essa non può che essere originata dalla “crisi del dono”. Si tratta del momento in cui la madre non risponde più al desiderio sessuale del figlio, minacciandolo di castrazione. Jacque Lacan dirà in proposito:

Che succede, infatti, quando la madre non risponde più alla sollecitazione del desiderio, quando risponde a suo piacere? Diventa reale, diventa potenza… Insomma assistiamo ad un rovesciamento di posizioni. La madre da simbolica diventa reale e gli oggetti reali simbolici… si tratta dell’onnipotenza materna: la madre può donare qualsiasi cosa al figlio e quindi sempre deluderlo. E’ in questo senso che di fronte a lei, è sempre dipendente e senza ricorsi. [13]

A partire da tale crisi, il soggetto cercherà in ogni modo di rimpiazzare l’oggetto perduto, la madre, la donna amata, di sostituirla simbolicamente con altre donne. Nonostante questo, l’impossibile replica dell’originale si tradurrà in insoddisfazione e inappagamento perenne.
           La dinamica della frustrazione è ravvisabile in film come Divorzio all’italiana di Pietro Germi e C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974).
           Nel film di Germi, ad esempio, il personaggio del barone Cefalù, interpretato da Mastroianni, è evidentemente frustrato da una mancanza reale. Questa mancanza cerca di essere colmata nel tradimento e nell’amore per Angelica, la giovane cugina, che diventa oggetto di desiderio. Eppure anche quest’ultima genera frustrazione, perché rappresenta solo un sostituto simbolico di una mancanza reale.


            C’eravamo tanto amati, invece, racconta non una sola storia, bensì tre storie di frustrazione. I personaggi interpretati da Manfredi, Gassman e Satta Flores sono sempre alla ricerca di qualcosa che manca nella loro cornice reale e disperatamente si aggrappano a oggetti ed eventi sostitutivi: Gianni alla carriera, Nicola all’ideologia e Antonio a Luciana (Stefania Sandrelli).


             A conclusione del discorso sulla frustrazione, ritengo sia giusto fare un’osservazione sulla quasi totale assenza di figure femminili nella commedia all’italiana. La focalizzazione sul personaggio è, nella maggior parte dei casi, incentrata sul versante maschile. Questo avviene, a mio avviso, perché obiettivo ultimo della commedia è di dare un’immagine del maschio nuova, inedita. La maschera dell’uomo italiano forte e virile, esaltata durante il fascismo, tende a scollarsi nella commedia all’italiana; infatti, essa è ridisegnata e rimodellata attraverso una descrizione più reale e oggettiva. Il maschio della commedia all’italiana è una figura problematica, colta nelle sue debolezze e insoddisfazioni, il più delle volte dominata dalla potente figura della donna, che ne amministra pulsioni e desideri.
L’unico autore che, a mio modo di vedere, si è confrontato col versante femminile è stato Antonio Pietrangeli con Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1964), interpretato da una giovanissima Stefania Sandrelli. Anche in questo film, centrale è la frustrazione di un personaggio, quello della Sandrelli appunto. Il discorso sulla frustrazione qui merita una nota a parte, poiché in questo caso la sua origine è difforme rispetto a quella del maschio.
Se la frustrazione maschile era attribuita alla perdita del dono materno e alla paura di castrazione, nella donna si realizza un processo differente. In primo luogo la donna non teme di perdere il pene, ma «reagisce al fatto che non lo possiede»[14]. Di conseguenza, lo sviluppo nella donna è segnato nell’invidia del maschio e nel sentirsi inferiore ad esso. La bambina non è dipendente dalla madre, anzi se ne separa molto presto, poiché la ritiene colpevole di questa mancanza. L’amore per la madre è sostituito con l’amore per il padre. In quest’amore sono individuabili due desideri: il primo è quello di possedere il pene del padre e il secondo è quello di ottenere un bambino da lui.
La frustrazione femminile è, quindi, rintracciabile nella mancanza del pene e nella volontà di possederlo attraverso l’amore per il padre, figura che poi sarà sostituita nel tempo da altri uomini. Questo processo è definito complesso di Elettra.
Adriana (Sandrelli), in Io la conoscevo bene, è un personaggio che cerca di sostituire questa mancanza attraverso le illusioni, le ingenuità, e soprattutto attraverso rapporti occasionali con amanti, figure paterne deludenti, incapaci di riempire il vuoto, generato a sua volta dalla consapevolezza di essere venuta al mondo incompleta, senza il pene.


           Nella commedia all’italiana, come detto in precedenza, la parabola dell’adattamento dell’individuo è fortemente segnata dalla volontà del soggetto di sfuggire alla vita adulta. Quest’ultima, se da un lato genere la fobia della mancanza e della frustrazione, dall’altro genera l’ansia perturbante della castrazione, percepita già nella fase edipica.
            Si è visto come la paura di perdere il pene da parte del bambino sia accusata come minaccia della madre, la quale si rende conto di essere l’oggetto del desiderio del figlio; questa minaccia è rafforzata dalla vista del genitale femminile ed è poi trasferita al padre, che si configura come figura esecutrice. E’ l’autorità del padre ad insinuare la paura di castrazione.
            La supremazia paterna origina, dunque, il senso della legge. La  castrazione altro non è che la sanzione, il “debito simbolico”. Questa minaccia è sempre presente nell’individuo, consapevole che alla fine sarà sorpreso, colto sul fatto e dovrà pagare le sue colpe, attraverso la perdita del fallo.
          Il film della commedia all’italiana che meglio ha saputo riassumere il principio della castrazione è indubbiamente Il sorpasso (Dino Risi, 1962). Bruno Cortona, il personaggio interpretato da Vittorio Gassman, cerca in tutti i modi di scansare il debito che lo aspetta. Egli fugge dalla vita adulta, si maschera di identità che non gli appartengono, compiendo rocambolesche avventure, pur di sfuggire alla legge (la famiglia, il lavoro, i figli). La fuga dalla castrazione si dimostra, però, un fallimento annunciato. Bruno pagherà, infatti, con la morte di Roberto (Trintignant) che, come ha osservato Maurizio Grande, altro non che è il suo alter ego, l’altro se, il se da cui è sempre fuggito.


         A questo punto l’indagine associativa tra la psicoanalisi e la commedia all’italiana sembra concludersi. Si è visto come il tema dell’adattamento sociale dell’individuo, centrale nella commedia all’italiana, sia collegato con alcuni punti nevralgici del pensiero freudiano: in primo luogo la teoria delle pulsioni, pulsioni con cui il soggetto della commedia sembra dover far continuamente i conti, fino alla completa repressione. L’adattamento “forzato” dell’individuo genera a sua volta un senso di frustrazione, originato dalla crisi del dono materno, e la paura della castrazione legata alla figura paterna, simbolo della legge e della sanzione.
La commedia all’italiana sembra parlarci proprio di questo.


Roberto Mazzarelli


Bibliografia

Jacques Lacan, La relazione d’oggetto e le strutture freudiane, in Seminari di Jacques Lacan, Pratiche, Parma 1978.

Mariapia Comand, Commedia all’italiana, Il Castoro, Milano, 2010.

Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni editore, Roma, 2003.

Michail Michailovič Bachtin, Epos e romanzo, in G. Lukàcs- M. Bachtin, Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino, 1976.

Northrop Frey, Anatomia della critica, Pratiche, Parma, 1981.

Sigmund Freud, Compendia di Psicoanalisi, Newton Compton editori, Roma, 2010.

Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, Newton Compton editori, Roma, 1988.

Sigmund Freud, Sessualità e vita amorosa, Newton Compton editori, Roma, 1989.



[1] M. Grande, La commedia all’italiana, p. 39.
[2]  N. Frye, Anatomia della critica, p. 217.
[3]  M. Bachtin, Epos e romanzo, p. 202.
[4]  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 80.
[5]  Ivi, p. 55.
[6] S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 56.
[7] M.Grande, La commedia all’italiana, pp. 51-52.
[8] Ivi, p. 50.
[9]  S. Freud, Sessualità e vita amorosa, p. 277.
[10] M. Grande, La commedia all’italiana, p.79.
[11]  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 85.
[12]  Ivi, p. 86.
[13] J. Lacan, La relazione d’oggetto e le strutture freudiane, in Seminari, p. 30.
[14]  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, p. 88.

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