di Roberto Mazzarelli
Sugar(land) express. Un espresso per la terra dello zucchero, dove tutto è (apparentemente) più dolce. Pare di rivedere un film capolavoro, girato l'anno precedente, La rabbia giovane di Terrence Malick, invece sui titoli di "testa-coda", c'è il nome di quel talento, (ora perso) di Steven Spielberg, al secondo esordio alla regia, dopo Duel, film tv di stampo hitchkockiano, un cult per i (cult)ori del cinema. Espressioni, entrambi, di un cinema maturo, considerando la giovane età del regista all'epoca in cui girò i suoi film (24 anni per il primo, 27 per il secondo). Con gli anni Spielberg si ricorderà di essere stato bambino, da lì la fiaba, il racconto per grandi e piccini, effetti speciali per un popolo che stava modificando in un espressione sociale differente, meno radicalizzata rispetto a quella dei 60'-70'. Anni della protesta nei confronti dell'autorità, culmine degli anni della grande depressione. Black Power, diritti civili, Vietnam, figli dei fiori a citar alcuni dei fattori più significativi della storia degli Stati Uniti e non solo. Fattori che crearono le condizioni per un cinema politicamente critico. La New Hollywood nasce proprio da qui, da questo ri-sentimento di carattere nazionale. Non si trattava di un vero e proprio cinema d'arte come molti sostengono, la sperimentazione visiva era solo una parte di quella controcultura che girava in quegli anni. Il cinema era indipendente e non puntava all'arte, ma ad una libertà estetica. Mai raggiunta così in precedenza. In questa affermazione rientrano a buon grado i primi film di Coppola, Scorsese, Cimino, Altman... e anche ovviamente il cinema di Steven Spielberg. Si tratta di un cinema che tende a voler fare politica, critica, espressione di una nuova pluralità di sguardi sociali. Tutto questo attraverso l'utilizzo del film di genere. Lo stesso succedeva in Italia con i film western di Leone o con il "polizziottesco" alla Umberto Lenzi o anche il cinema politico di Petri.
Vien da chiedersi come mai, il cinema americano di quegli anni insegui un certo tipo di storie legate al tema della fuga. Ma c'è da riflettere sul fatto che tali storie non sono solo raccontate dal cinema, ma anche dalla musica. Pensiamo al Born to run di Springsteen e ai suoi anti-eroi che fuggono verso una promise land, incarnata per molti nel mito del Messico, terra libera dalla circoscrizione americana, che mira alla repressione. Basti vedere il già su citato Duel, dove un uomo è costretto a fuggire per colpa di un'entità invisibile, un'entità alla guida di un autocisterna contenente all'interno benzina. Chi sarà mai l'uomo che guida quell'autocisterna non lo sapremo mai. Ma vien da pensare al fatto che essa sia l'incarnazione di un concetto, legato ad una visione del potere che ti insegue per farti fuori (questo il leitmotive dei primi film di Spielberg). L'autocisterna con la sua grandezza e visione dall'alto esprime in maniera precisa questo concetto e metaforicamente il fatto che ci sia benzina al suo interno è ancor di più una conferma. La benzina è indubbiamente sinonimo di potenza.
In questo modo si evince, come l'on the road americano tutto non è che il miglior modo di esprime un disagio, socialmente interiorizzato. Molto probabilmente il protagonista di Duel altro non fa che immaginare quell'autocisterna. Inseguimento e fuga dal fantasma, quel fantasma che potrebbe essere molto bene il cinema, le immagini (della mente) proiettate su uno schermo. In questi film la fuga porta sempre e comunque in un deserto, il vuoto e la grandezza della mente (vedi Strade Perdute di Lynch). Il capolinea è sempre legato alla morte o alla prigionia. Non ricordo film americano dove il fuggitivo riesca a sfuggire definitivamente dai suoi boia. Gli Stati Uniti nella sua vastità sembra il posto perfetto per atmosfere claustrofobiche. Grandezza e vuoto del deserto altro non sono che una chiusura stretta e profonda. Non si arriva mai al confine e non è un caso che la cittadina di Sugarland sia molto vicina al Messico.
Mi piace notare anche come la storia di Sugarland Express sia narrata con un gusto fortemente romantico (altra caratteristica che accomuna il film di Spielberg a quello di Malick). La sensazione è che i protagonisti non siano pianamente consapevoli di quello che sta succedendo. O meglio sembrano non fregarsene di avere alle loro spalle 94 macchine della polizia che li inseguono. Spielberg in questo modo vuole farci affezionare ai suoi due protagonisti, sembra voler farci sposare la loro causa. Rafforzato, tutto questo, dal ruolo che i media hanno all'interno del film. In questo vedo un'anticipazione di quasi vent'anni rispetto al Natural Born Killer di Oliver Stone (trasposizione allucinata di La rabbia giovane di Malick) o Brazil di Gilliam.
La radio e la televisione hanno un ruolo duplice in Sugarland Express. Da una parte la notizia dei due fuggitivi arriva al popolo, che in poco tempo diventano fan dei due, accogliendoli a tappe nelle varie cittadine in cui essi approdano e non solo, sembra di assistere al Giro d'Italia, anche nel deserto gruppi di persone con tanto di cartelloni inneggiano alla libertà dei due. Ma i media sono anche un altro tipo di espressione, ovvero il controllo da parte del potere. C'è sempre un occhio di una telecamera o un microfono della radio ad impedire la vera fuga dei protagonisti. Spielberg con questo ci pre-dice quello che poi approfondirà con Minority Report, l'uomo in questa società mediatica è sempre sotto controllo. FUGA DAI TOTALITAR(ISMI) DELLO SGUARDO.
ma bravo amore!!!! ma il Mereghetti e il Farinotti te fanno na pippa a te!
RispondiEliminaEffettivamente Mereghetti, Farinotti ecc non vanno così in profondità.....
RispondiEliminaHa vinto il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes nel 1974
RispondiEliminaPS: Nel titolo dell'articolo erroneamente hai scritto Stevan invece di Steven. Ciao
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RispondiEliminaLucido e amaro saggio sulla società americana dei consumi e sui meccanismi del potere. Voto: 9
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