Continuiamo il nostro discorso su Boris con un intervento di Simone Dissidomino.
“Gioite! Il futuro è una merda e lo stiamo costruendo per voi” così si chiude uno degl’interventi di Ascanio Celestini al Parla con me di qualche anno fa. Celestini ci spiega bene qual è la natura di questa merda, insomma di cosa si tratta. Lo fa attraverso il filtro monologico di un “industriale di merda” che, come tale, produce merda per poi rivenderla. Dato che su Youtube è possibile visionare questo intervento, non userò altro spazio per parafrasare Celestini. Piuttosto mi sembra evidente che anche la serie Boris abbia l’intenzione di vestire i panni di un industriale di merda che produce merda per rivenderla. Ma se l’industriale di Celestini operava in un l’Italia reale (con i suoi ospedali, scuole, palazzi, etc. di merda), nel caso della serie televisiva la merda è filtrata dalla fiction, da un discorso attorno all’Immagine. Dico filtrata perché mi sembra che la fiction in Boris sia come una rete da pesca che trattiene tra le sue maglie le anime del mare. Boris è un’anima oltre ad essere un pesce. E in qualche modo la serie nella serie, Occhi del cuore, è la trappola che irretisce Boris, così come l’acquario è la bolla che trattiene in vitro il pesce rosso (Boris). L’anima di Boris passa da una stagione alla successiva, da un acquario ad un altro, da un corpo ad un altro corpo, come una infinita transumanza di anime che entrano nel gregge della finzione al seguito di un invisibile pastore/padrone, “la produzione” (una sovrastruttura). Boris, come principio di scatole cinesi, è una sovrastruttura, è il principio e la fine del racconto, uno schiavo ed un padrone al contempo. Boris mette in scena questo rapporto sovrastrutturale padrone/schiavo, rapporto tra una parte concreta, fisica (gli attori/personaggi, i corpi) e una parte assente, invisibile (il pubblico, i dati Auditel); connivenza tra una parte dell’individuo tesa alla sottomissione e un’altra parte di esso tesa al comando (e al controllo). Credo che Boris sia uno sforzo titanico, come sosteneva Rob Mazzarelli, proprio perché si sforza di incrinare dall’interno questo rapporto tautologico e dunque proteso alla stasi, nel tentativo di spezzare un Incantesimo o di mandare in frantumi Cento Vetrine. Ed è così che l’acquario frantumato di Ferretti rilancia il pesce Boris sul set, come un infiltrato, un osservatore speciale; è di nuovo nella sua monade, come un’anima in attesa di tempi migliori, e osserva un’Italia in cui il progresso e i must dell’industria “culturale” coincidono con un ritorno all’età della pietra, ma anche l’Italia in cui la tradizione immobilizza proprio la parte più innovativa del progresso, quella che riguarda l’anima. Mai sentito dire che la fotografia può trattenere l’anima? Nell’apertura totale, “smarmellando” la luce senza una direzione e una misura, l’anima è rimasta accecata e adesso finge di vedere: il discorso sulla fotografia in Boris è anche un discorso sull’estetica dello sguardo, sulla morale dello sguardo, uno sguardo che “apre tutto” sul falso perché il falso è tutto (quel che è meglio, quello che si deve, ciò che si lascia vedere).
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